Cheyenne è un ex pop star che vive con la moglie in una grande villa a Dublino. Passa le sue giornate in compagnia della giovane amica Mary che ha “adottato” da quando quest’ultima ha visto scomparire nel nulla il fratello e cadere in depressione la propria madre. La morte del padre lo riporta in America, a New York, dove scopre che gli ultimi anni di vita del genitore, ebreo, sono stati dedicati alla caccia di un criminale nazista che si nasconde chissà dove sul territorio americano. Nonostante sia la persona meno idonea a perseguire un tale obbiettivo, Cheyenne si mette alla ricerca del criminale…

Bizzarro. Irrisolto. Affascinante. Imperfetto. Potremmo continuare a elencare aggettivi spesso antitetici tra loro, ma l’essenza di This must be the place è proprio questa: un film indecifrabile. Nasce come una copia di Somewhere in salsa musicale, prosegue seguendo le tracce di Into the Wild, devia verso le strade battute da The Straight Story e finisce come…beh, finisce e stop.

Difficile, davvero difficile inquadrare correttamente il nuovo lavoro di Paolo Sorrentino che, se da un lato conferma pienamente la sua innata capacità di mixare immagini e musica e quella di dirigere gli attori, d’altro lato stavolta non riesce ad amalgamare al meglio le diverse anime della sua opera. This must be the place è un road movie e su questo non dovebbero esserci incertezze. Così come piuttosto evidente è la doppia lettura del tema del viaggio che se da un lato si dipana tra Dublino e varie località dell’America, che da un occhio europeo viene sempre vista con un pizzico di sbogottimento e sorpresa, se non addirittura deferenza, dall’altro rapprsenta anche il “viaggio interiore” del protagonista.

Cheyenne è, in linea di massima, un buono: sempre vagamente assente, agghindato come Robert Smith dei Cure, infantile nei modi ma capace di analizzare perfettamente le bizzarre situazioni e gli atipici personaggi che incontra nel suo viaggio. Qui sta la forza e, al tempo stesso, la debolezza del film: alcuni incontri, come quello con la cameriera con figlio sovrappeso nel bar e quello col criminale nazista (sì, lo trova e no, non può essere considerato uno spoiler, non siamo in Bourne Identity o film similare) sono felici nella forma e nella sostanza; altri invece scadono nell’autorialità fine a sé stessa (l’indiano o il padrone del pick up). Ovviamente This must be the place non è un film sull’Olocausto e il taglio che Sorrentino dà alla vicenda permette, paradossalmente, di esaminare quella tragedia con un occhio diverso, nuovo e più efficace.

C’è molta malinconia in alcune sequenze, l’assenza (degli affetti, della famiglia, di una figura di riferimento) è un tratto presente in molti dei personaggi proposti e lo script sceglie in certi casi di alleggerire il carico emotivo della storia con flash umoristici spesso azzeccati. Insomma, non ci si annoia, tuttavia l’estrema frammentarietà delle mini-storie che nascono e muoiono nel giro di pochi minuti rende più faticosa la narrazione, non sempre fluida come dovrebbe essere.

This must be the place ha due protagonisti: Sean Penn e la musica. Entrambi efficaci. Il film è costruito su misura per l’attore che ne esce a testa alta senza gigioneggiare troppo, anche se in certi casi la sua cadenza cantilenante è davvero insopportabile. Quanto alla musica…it’s Talking Heads time! Byrne, oltre a essere presente nel film (il cameo più inutile nella storia del cinema degli ultimi anni, a ben vedere) scrive un’ottima sountrack di accompagnamento cui aggiunge alcuni pezzi storici del suo passato da frontmen, main title compresa. La sensazione è che Sorrentino sia stato fin troppo deferente col “genio” ma in fondo, ognuno ha i suoi miti e li celebra come meglio crede.

Un film rock e lento allo stesso tempo: siamo lontani dalle vette de Il Divo (forse il miglior film italiano degli ultimi vent’anni), ma nel caos, intravediamo lampi di talento purissimo. Cercavate un film “strano”? Eccovi serviti.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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