Ci vuole coraggio a rigirare in salsa yankee un film svedese quasi universalmente considerato il migliore del 2009 e che è stato capace di svecchiare da solo un genere risalente agli albori del cinema. Matt Reeves evidentemente non ha problemi di autostima, visto che dopo il discusso (ma riuscito) Cloverfield ha cercato nuovamente di complicarsi la vita con il remake di Lasciami Entrare, cult indiscusso firmato da Tomas Alfredson, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist.

Così, mentre tutti i cinefili erano pronti con i canini ad azzannare il collo dell’americano inetto, ignorante e asservito al potere delle malvagie case di produzione a stelle strisce, lui che fa? Tira fuori una copia conforme dell’originale e riesce persino nell’impresa di metterci del suo. Rispetto all’originale svedese, Let me in punta più sul background in cui si muovono e interagiscono i personaggi che sul rapporto tra i due: è piacevole tuttavia constatare che quest’ultimo si sviluppa in modo credibile, evitando l’eccessiva verbosità, storico tallone d’Achille del cinema americano.

Let Me In

Reeves si dimostra ossequioso anche nella messa in scena. Tutte le sequenze che hanno reso l’originale così famoso sono replicate in maniera pedissequa: il primo incontro, i dialoghi “muti”, l’autocombustione naturale di una delle vittime e la “scena della piscina”, diventata simbolo del film. La scelta del cast si dimostra eccellente: Kodi Smit-McPhee è sufficientemente pallido, triste e affranto per interpretare la vittima vessata dai bulli, mentre Chloe Moretz, che in Kick-Ass aveva dimostrato una notevole personalità, conferma di essere a suo agio nei panni della vendicatrice.

In un mondo in cui l’equazione teenager-vampiri richiama l’ignobile saga di Twilight o, nella migliore delle ipotesi, la grottesca (quando non demenziale) serie True Blood, anche l’America riesce a dare il suo contributo al rilancio di un genere altrimenti piuttosto mal frequentato.

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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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