Capita sempre più raramente di parlar bene di un film italiano. I pochi talenti rimasti girano all’estero (Sorrentino) o una volta ogni morte di Papa (letteralmente, Moretti) mentre la maggioranza prospera con pseudocommedie pseudodivertenti o galleggia, nutrendosi come un parassita di sovvenzioni statali erogate ad minchiam. Al pubblico peraltro, incassi alla mano, della qualità pare importare poco o nulla e si preferisce la risata grassa a tutti i costi, sempre, in ogni occasione e circostanza, “per sdrammatizzare”, confermando che i latini erano alquanto lungimiranti quando affermavano che risus abundat in ore stultorum. Eppure, ogni tanto, raro come un fiore nel deserto, un ago nel pagliaio o un diamante nella merda, ecco saltare fuori un film intelligente, attuale, solido, ben girato, scritto e interpretato.

ACAB è un acronimo che sta per All Cops Are Bastards, titolo di una celebre canzone del gruppo The 4-Skins, nonchè motto utilizzato dai gruppi skinheads negli anni settanta e ottanta. La pellicola, tratta dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini, racconta le storie di tre celerini, Cobra (Favino), Negro (Nigro) e Mazinga (Giallini), alle prese con la routine di tutti i giorni fatta di violenza data e ricevuta, una nuova recluta (Diele) da addestrare e tanti, troppi scazzi familiari: c’è chi ha problemi con il figlio, chi con la moglie, chi con sè stesso.  Stefano Sollima, regista della serie Romanzo Criminale (e prima ancora de La Squadra), i cui tratti distintivi sono qui ben riconoscibili, dà credibilità all’intreccio inserendo sullo sfondo vicende di cronaca molto note come il G8, la morte di Raciti e di Gabriele Sandri, mantendosi però equidistante e senza puntare il dito: in ACAB c’è molto grigio, mai bianco o nero. Chi vive in una realtà degradante e degradata finisce per diventarne parte integrante e non è un caso che in una delle sequenze più credibili e azzeccate del film, ultras fascistoidi e poliziotti finiscano per esultare allo stesso modo e ballando sulle stesse sonorità.

I poliziotti di ACAB, ben interpretati da un cast molto affiatato, sono la prima linea, la bassa ma indispensabile manovalanza, quelli che si occupano dei lavori sporchi, del contatto quotidiano con il peggio del peggio, che passano la vita in strada o sulla camonietta. Un’esistenza fatta di parole, slogan, codici e riti non troppo dissimili da quelli seguiti dagli “avversari”, siano essi ultras, teppisti o immigrati violenti. Lo sfondo della vicenda è una Roma lurida e sciatta, fatta di stadi, caserme, campi nomadi e case popolari di periferia dove la gente sopravvive senza tetto nè legge. Mai incline alla retorica o al facile ammiccamento al pubblico, con poca politica e tanto cervello, Sollima costruisce una macchina quasi perfetta (perdoniamo la presenza di qualche scena un po’ ingenua e didascalica, come quella dello sfogo di uno dei protagonisti davanti ad uno dei palazzi della politica marcia & corrotta), un’opera ricca di umanità che induce a riflettere, discutere, analizzare, porsi e porre domande, merce rara di questi tempi. ACAB segnerà la rinascita del poliziesco all’italiana? Difficile a dirsi, ma già il fatto di vedere in sala un’opera integerrima sotto il profilo etico e impeccabile sotto quello produttivo (clamoroso il lavoro svolto sulla colonna sonora) è una salutare e indispensabile boccata di ossigeno prima di rituffarsi nella palude di commedie senza cervello che occupano in pianta stabile i cinema italiani.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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