Esiste un particolare fenomeno in neurologia conosciuto come “Wind up” o “Winding up”, in base al quale gli organi responsabili della percezione del dolore ridurrebbero la loro soglia di eccitabilità, cioè la facilità con cui vengano stimolati, in seguito a ripetute, continue e intense scariche di segnali dolorifici. Il dolore chiama dolore.

I latini invece credevano che nel nome ci fosse scritto il proprio destino. Per uno strano scherzo del destino un tizio di nome Nicolas Winding Refn gioca con la violenza e il dolore che essa provoca in maniera circolare e ciclica, e pare sappia farlo molto bene.

Frutto dell’incrocio tra un regista e una fotografa, il suo esordio è fulminante, nascendo negli anni in cui i film di fare del male alla gente andavano per la maggiore un po’ dappertutto. Frequenta l’Academy of Dramatic Arts a New York, ma rubati i primi rudimenti alla “Terra di Mezzo Cinema”, torna immediatamente nel Vecchio Continente per esporli alla più salutare brezza del Nord Europa. Un cortometraggio, un finanziamento cospicuo per trasformalo in lungometraggio, un altro film già da concorso di quelli strambi, poi un altro, poi l’Oscar per la regia con una pellicola che fa scorticare dagli applausi le manine d’essay del pubblico di Cannes.
Jab, diretto, gancio, montante, KO.
OK.

Sappiamo chi è, resta solo da capire perché. Ma partiremmo già col piede sbagliato, dato che il motto del nostro danese, pare sia “Non mi interessano i motivi dell’agire dei miei protagonisti, ma solo la loro azione e come si veda a schermo”. Pura estetica. Niente perché, solo come. Eppure i suoi epigoni hanno scopi, spesso tanto irresistibili quanto insondabili o addirittura divini, che li spingono ad agire. Pura etica?

Dei quattro dell’Ave Maria che hanno spinto Refn nell’ Olimpo dei nomi che al solo sentirli nominare chiedi un posto centrale fila H, The Pusher può essere considerato il frutto più acerbo e manieristico, col quale il nostro danese tara gli strumenti dei suoi futuri exploit.

Dal taglio moderno, e un po’ radical chic, con una camera che ciondola ebbra da un volto all’altro, The Pusher ritrae i percorsi di vita di un gruppo di spacciatori e tossicodipendenti di ogni risma, sullo sfondo di una Copenaghen fredda e indifferente come la Natura de La sottile linea rossa.

Le tematiche di redenzione, sprofondamento nell’abisso di una perenne anestesia dai problemi della vita, e vendetta si rincorrono con un ritmo ordinatamente scompigliato, e di fianco alla fotografia di soggetti in cerca di scampo o in perenne fuga, compare timidamente anche quella più squisitamente cinematografica di corpi e volti che emergono o scompaiono, come figure di Caravaggio, nelle pieghe dell’ombra, assieme a quel ticchettare asimmetrico di lunghe pause ed esplosioni di azione ipercinetica che troveranno pieno compimento solo successivamente. In barba alla linearità delle teorie evoluzionistiche, il suo manifesto arriva all’improvviso con un protagonista che si diverte a sbeffeggiare le restanti elucubrazioni sociali e psicologiche.

Bronson è il manifesto del cinema di Refn, alla faccia di chi viene prima, ma anche di chi arrivi dopo. Proprio in spregio di ogni continuità temporale, la pellicola è scollegata da uno svolgimento sinottico coerente e priva di approfondimenti didascalici sui perché e sui percome, disegnando abilmente la grottesca vita di Michael Petersen nella forma di una gabbia entro cui comprimere la propria visione dell’atto violento, come esplosione immaginifica e catartica dell’ Io.

Il mezzo diventa il messaggio, l’etica si fonde con l’estetica, anzi, la seconda diventa lo scopo della prima, e Refn compone sullo schermo dei quadri fatti ora di scene rapide e saturatissime, ora lente e cristallizzate nell’immota perfezione della luce bianca, in un continuo ondeggiare, non più di camera ma di intenti, tra l’eleganza formale e ironica del Vaudeville e il Grand Guignol delle subitanee esplosioni di violenza.

Coup de theatre e coup de poing diventano tutt’uno, l’atto nella sua purezza realizzativa, violenta e istintiva, come forma di espressione affrancata da qualsivoglia orpello secondario, trasformando lo schermo nella tela impressionista che squarci a suon di colpi e sangue il realismo immoto della grottesca normalità inglese.

Con Valhalla Rising è ancora l’Europa la protagonista, ma questa volta il regista compie un salto temporale, quasi a volere esplorare le origini e le ragioni di quell’atto sanguinario che l’uomo ha sempre cercato di reprimere, seppellendolo nelle circonvoluzioni contorte della ragione.

Se in Bronson la tematica etica si polverizzava, disperdendosi in atomi pronti a fondersi con la leggiadria della sua rappresentazione estetico-formale, e in The Pusher diventava il flebile vagito di un neonato che si cercava in tutti i modi di fare addormentare, calata nel tessuto filmico ma da esso scissa su un binario parallelo, nella pellicola del 2009, a un anno soltanto dal fortunato biopic, Refn si apre alle suggestioni mistiche e alle teorie più eretiche sul profondo e sottile legame tra paganesimo e religioni monoteiste imperanti.

Si riscopre così il mito dell’uomo primevo, di quell’Adam Kadmon che era tutt’uno col divino e non aveva bisogno di riscoprirlo in un libro o in un dogma, ma semplicemente avendo fede nelle sue visioni interiori, che lo avrebbero portato al compimento del destino comune di tutti i prescelti da una volontà superiore, non barbuta o sovrappeso, ma vivente nella Natura tutta.

One Eye, il protagonista muto e spietato di Valhalla Rising, dotato di una forza combattiva incomparabile ma privo di un passato e di uno scopo, diventa così l’incarnazione stessa di ciò che in Bronson era solo una visione inseguita per tutta la vita e, aldilà delle suggestioni esoteriche, si ammanta del puro carattere dell’artista/regista secondo la poetica di Refn: un individuo che osserva la vita da un solo occhio (quello della camera o del cosiddetto vetrino di contrasto), disegnandola esattamente come le sue visioni gli suggeriscono, senza che vi sia un scopo premeditato in questo, ma trovandolo nel momento stesso del compimento dell’atto che diventa pura creazione, dove etica ed estetica si fondono nell’assunto leonardiano che la forma sia l’immagine plastica della funzione.

E alla fine arriva Drive, che prima di un film a doppio carburatore, è un fortunatissimo gioco di parole, non di quelli sciocchi e forzati come se ne possono vedere sulle pompose riviste di critica cinematografica su improbabili legami tra cognomi e neurofisiologia, ma su ciò che spinge un uomo, un pilota, ad agire, improvvisamente, violentemente, definitivamente.
Ciak, azione.

In Bronson c’era una visione da perseguire, in Valhalla Rising delle visioni da realizzare.
In Drive c’è una visione, unica e irripetibile, col faccino da caramellina gommosa di Carey Mulligan, il mite e riservato protagonista, senza nome né passato come il vichingo di qualche anno prima, che si mette in moto come i bolidi su cui lavora giorno… e notte.

Questa è la prima parte di uno speciale pubblicato di Players 13, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.



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