FROM A RESIDENT EVIL TO A SILENT HILL

Con Resident Evil (1996), Capcom sdogana definitivamente il genere horror nell’ambito dei videogiochi, passando dalla porta principale del gore esplicito e d’impatto, che rielabora in chiave elettronica gli stilemi degli zombie movie diretti da George A. Romero.

Così, soluzioni registiche e di sceneggiatura, proprie del cinema d’orrore, vengono integrate nel linguaggio videoludico, generando un’esperienza articolata, che si sviluppa tra dialoghi, cutscene e fasi di gioco molto diverse tra loro (esplorazione, combattimento, risoluzione di enigmi). Il tutto è visualizzato in terza persona tramite vari tipi d’inquadrature fisse su fondali renderizzati, le quali si susseguono come in un montaggio di sequenze cinematografiche, allo scopo di trasmettere la giusta dose di tensione. Nasce in questo modo il genere “survival horror”, che, per quasi un lustro, vive seguendo le regole introdotte dal videogioco Capcom.

Solo nel 1999, il visionario game designer Keiichiro Toyama riesce a spezzare questa tradizione, attraverso un esperimento iconoclasta, chiamato Silent Hill. Il gioco, edito da Konami per PlayStation, riprende la struttura del survival horror Capcom e ne destabilizza i capisaldi in maniera sottile, gettando il giocatore in uno stato di confusione piacevolmente ansiogeno, nonché foriero di una paura più profonda, intima.

THE BIRTH OF A NEW GOD

In Silent Hill, ogni aspetto dell’estetica e del gameplay agisce come uno specchio che deforma progressivamente la classica immagine del videogioco à la Resident Evil, partorendo un orrore ignoto dall’orrore ormai conosciuto.

Durante l’avventura, la tradizionale componente esplorativa viene squassata dall’alternarsi compulsivo di due piani dimensionali, quello reale e un “altrove” disturbante. A seguito di ognuna di queste transizioni, i palazzi, l’asfalto e tutti gli altri elementi dell’ambiente si scarnificano per mostrare un agghiacciante dedalo di strutture in metallo, incrostate dal sangue, corrose dalla ruggine, infettate dal tenerume pulsante di masse carnose dalla natura ignota.

Il risultato è tanto scioccante dal punto di vista estetico quanto spiazzante sul frangente ludico, giacché la scrupolosa mappatura dell’area effettuata su un piano dimensionale si rivela inutile nell’altro. Le vie, gli edifici e i loro interni cambiano organizzazione e nascondono minacce sempre diverse, costringendo l’utente a confrontarsi nuovamente con l’incognito. Tutto ciò si estrinseca in ambienti che rimpiazzano le planimetrie renderizzate di Resident Evil con strutture poligonali, organizzate in modo da edificare l’eponima città fantasma (vera protagonista del gioco), la quale offre location al chiuso e all’aperto, esplorabili in maniera relativamente libera.

L’abbandono degli statici sfondi precalcolati e l’introduzione di un accenno di free roaming nella chimica del gameplay comportano la necessità di utilizzare artifizi atti ad aggirare i limiti tecnici di PlayStation, che impediscono di visualizzare una linea di orizzonte sufficientemente lontana in environment poligonali vasti e articolati. Così, gli esterni vengono ammantati da una nebbia densa e asfissiante, mentre sugli interni cala un velo di oscurità. Queste soluzioni contribuiscono anche a generare un’atmosfera claustrofobica, che si mantiene intatta pure nelle location più ariose.

L’adozione dei filtri grafici si ripercuote direttamente sulle fasi di combattimento, poiché gli esseri mostruosi che infestano la città risultano piuttosto difficili da scorgere in lontananza, tra i fumi della foschia e le ombre. Per preservare quest’aura di tensione senza andare a detrimento del gameplay, Toyama decide di munire il protagonista del gioco di una torcia elettrica e di una radio. La prima illumina parzialmente le zone buie, mentre la seconda emette ominosi fruscii in prossimità delle creature, segnalando il loro appropinquarsi con un graduale aumento del rumore. Tutto ciò, unito alla natura parzialmente casuale degli incontri (diversa da quella scriptata di Resident Evil), sottopone il giocatore a una pressione psicologica e sensoriale continua, costringendolo in ogni momento ad ascoltare e osservare il macabro ambiente circostante, in cerca di eventuali minacce. Tale approccio, che fa dell’immedesimazione una necessità, apre una crepa nelle difese razionali dell’utente, all’interno della quale s’insinua la creatività perversa del game designer.

Toyama sostituisce l’orrore riconoscibile degli zombie e dei mutanti di Resident Evil con quello arcano di mostruosità deformi, anomale, la cui natura simbolica emerge gradualmente, in relazione al dipanarsi della trama. Così, alcune creature si svelano essere frutto di un culto blasfemo, perseguito da una comunità sanguinaria e delirante, mentre altre sono la materializzazione delle paure d’infanzia di una ragazza innocente, arsa dal rancore nei confronti di chi l’ha sottoposta, sin dalla nascita, ad atroci torture.

Pure gli enigmi diventano tessere del puzzle narrativo, non limitandosi a svolgere solo una funzione ludica, ma facendo anche luce su alcuni risvolti dell’inquietante dramma in cui si trova coinvolto il protagonista, Harry Mason. Quest’ultimo finisce a Silent Hill insieme alla figlia Cheryl, a seguito di un incidente stradale. Ripresosi dal trauma, si accorge che la piccola è scomparsa e si addentra nelle viscere del luogo maledetto per recuperarla, dando inizio a un incubo dallo sviluppo labirintico, le cui le vicende restano in parte irrisolte o, comunque, lasciante all’interpretazione del giocatore, complice pure la presenza di finali multipli. Nasce in questo modo il survival horror psicologico. [continua…]

Questo è la prima parte di un articolo è tratto da Players 14, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.



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Piero Ciccioli

Coniuga da anni la sua professione di ricercatore scientifico a quella di articolista e saggista specializzato in videogiochi, cinema d’exploitation, horror, fumetti e nei più disparati prodotti di entertainment d’origine nipponica. Nutre una viscerale predilezione per tutto ciò che è weird e sogna di radere al suolo una riproduzione in cartapesta di Tokyo, vestito da Godzilla.

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