Si annunciano nozze d’argento complicate tra Hideo Kojima e la sua creatura. Da una parte ci sono i risultati impressionanti, il sogno realizzato di un ragazzo che si immaginava storyteller e una fanbase il cui attaccamento al franchise farebbe impallidire il grosso delle curve calcistiche. Dall’altra, il lieve ma percepibile declino commerciale delle ultime uscite e, soprattutto, una certa sensazione di timore e incertezza che in tempi recenti sembra trasparire da Kojima Productions. Tra sfortunate pubblicazioni di pur validi episodi portable (Peace Walker) e clamorosi reboot produttivi di giochi dall’ossatura fragile (Rising), la sensazione è che un massiccio punto di domanda volteggi minaccioso sul futuro della serie; più una spada di Damocle che un espediente comico, stavolta.

La prima era del franchise, quella di Metal Gear e Metal Gear 2: Solid Snake su MSX/MSX2, costituì la prova generale: ne derivarono la nascita dello stealth game e la messa in pratica, tramite il medium videogioco, delle ambizioni narrative di Hideo. Big Boss, Solid Snake, il Metal Gear: tutti i protagonisti del pantheon videro il loro esordio in videogiochi che, rispetto ai best seller del tempo, rimasero sostanzialmente in secondo piano.

Il talento di Kojima guadagnò, infatti, credito soprattutto in madrepatria, mettendolo nella condizione ideale per sperimentare: sufficientemente affermato da potere spingere con forza le proprie idee, ma ancora non tanto determinante per i bilanci di Konami da dovere assecondare stringenti logiche di profitto. Furono i tempi di Snatcher e Policenauts; anni probabilmente più spensierati, in cui il game designer di Setagaya inseguiva idee lontano dalle vere luci della ribalta.

Nel 1998, la vicenda di Solid Snake a Shadow Moses (Metal Gear Solid) elevò la serie al rango di killer application permanente dei sistemi Sony e la pose in primissima fila tra i franchise capaci di spingere il medium verso nuovi traguardi tecnici, artistici e commerciali. Per la carriera di Kojima questo segnò l’inizio di un periodo esaltante e complesso: i tempi delle sperimentazioni spensierate erano alle spalle, mentre iniziava un periodo di pesante responsabilità non solo creativa, ma manageriale, i cui strascichi filtravano sovente dalla tradizionale aplombe nipponica del game designer. “Questo è il mio ultimo Metal Gear”, dichiarò a più riprese, in quello che finì per diventare un tormentone.

“Ho lasciato ogni incarico esecutivo a Konami, per potermi dedicare esclusivamente all’attività creativa”, lo si sentì dire, salvo poi tornare sui suoi passi. I fan, inizialmente preoccupati, impararono a non farci più caso, confortati dall’inesorabile regolarità con cui gli installment della saga arrivavano nei negozi, sempre con Kojima saldamente al timone.

L’ambizione creativa era tuttavia vera e vivida, capace a tratti di disarcionare ogni prudenza e denudare, davanti a un pubblico non sempre complice, un ego immenso e sfrontato. La clamorosa provocazione di Sons of Liberty, con il suo Solid Snake panchinaro di lusso e la sua natura di action game asservito a fini sociologici ed epistemologici, mise in luce questa frattura nella sua piena estensione.

Un paradosso brillante: il gioco più atteso, sognato e venduto della serie fu al contempo il gioco capace di alienarle il futuro interesse di ampie fasce di pubblico (costituite tanto da action gamer senza secondi interessi, quanto da fan feriti nella loro ortodossia) e di stroncarne per sempre l’ulteriore affermazione commerciale. [continua…]

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Giacomo Talamini

Residualmente noto come "Gunny", ha detto la sua in materia di videogiochi sulle pagine di Ring, Videogiochi e Babel. È fondatore del collettivo di filmmaking indipendente Hive Division, che detta così suona financo importante.

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