Questa intervista fa parte dello speciale sugli indie games apparso su Players 15, che abbiamo appena pubblicato.

Pensi che la recente ascesa degli indie games – e con esso degli sviluppatori come te – sia semplicemente un discorso di opportunità (Xbox Live, PSN, Steam, riduzione dei costi di sviluppo)?

Sicuramente il fattore più importante è proprio la disponibilità di nuovi modi per fare arrivare i nostri giochi al pubblico, con meno soggetti in mezzo pronti a sbarrarci la strada o a rovinarli. Non significa necessariamente che ci siano più opportunità, ma che le opportunità che abbiamo adesso sono più accessibili.

Personalmente, mi piace vedere la scena indie come una sorta di movimento collettivo di cui ancora neanche voi sviluppatori avete forse preso piena coscienza; un movimento di “protesta” contro il sistema dei publisher e contro la conseguente crisi creativa che affligge il settore. Cosa ne pensi? Credi che sia il caso di formalizzare in qualche modo questo “movimento” (se davvero esiste)?

Questo movimento esiste già. Quasi ogni singolo sviluppatore indipendente che conosco nutre questo sentimento (certamente in merito al sistema dei publisher; forse non con molta enfasi sulla parte creativa). Il pubblico a casa no, non necessariamente, ma va bene così; è davvero necessario?

Hai mai pensato (o avuto la possibilità) di lavorare per un grande publisher, ad esempio come è successo a Peter Molyneux? Pare che lui se ne sia pentito, di recente. E anche Tim Schafer sta tornando a lavorare in modo indipendente, addirittura rivolgendosi (con successo) al crowdfunding…

Veramente no. Ho già i mezzi per fare tutto ciò che sono interessato a fare. Non ho bisogno di qualcuno che avvii i progetti fornendo soldi, e questa è l’unica cosa che fa un publisher.

Ogni mese escono tanti giochi indipendenti. Alcuni, inevitabilmente, sono più interessanti di altri, mentre altri ancora diventano dei grandi successi, come Braid. Ecco, cosa ci vuole, secondo te, per emergere in questo contesto?

Devi solo fare un gioco che le persone abbiano una buona ragione per giocare. È un’idea semplice, ma un sacco di sviluppatori indipendenti non ci arrivano. È facile fare un gioco che senti sia speciale perché è tuo, ma a nessun altro al mondo importa che quel gioco è tuo, quindi deve avere anche qualcos’altro.

Certo cinema degli anni 60 aveva proposto l’idea che la narrazione come racconto fosse secondaria. Ora… il videogioco è interazione, performance, azione, per cui credo che un approccio di questo tipo sia necessario per un videogioco che voglia sfruttare appieno la specificità del medium. Qual è la tua posizione in merito: quanta importanza ha (se ne ha) la narrazione di stampo classicamente cinematografico o romanzesco nel videogioco?

Credo non sia per niente importante. Questo tipo di storia, quando usata all’interno dei videogiochi, porta alla mediocrità; ho fatto letture molto approfondite su questo argomento, per cui è difficile spiegare in breve il perché. Ma sarai d’accordo con me nel dire che le storie che vediamo nei giochi AAA sono terribili. Molta gente che gioca ai videogiochi sembra non pensarla in questo modo, ma credo ci sia uno strano problema di calibrazione in tutto ciò; la gente pensa a queste storie come “storie da videogioco” e le paragona solo alle storie di altri videogiochi, piuttosto che alla qualità dell’esperienza che puoi avere con un grande lavoro di letteratura, o che so io. Per cui, è difficile fare questo discorso su un piano tale che la gente possa essere davvero in grado di capire. Altri tipi di storie, però, possono funzionare. Prendi la storia di Dear Esther, ad esempio. Non la considererei all’interno di questo stile “classico” a cui ti riferisci, ma funziona benissimo per quel gioco. Anche il mio prossimo gioco, The Witness, darà un certo peso alla storia. Quindi penso possa essere fatto, ma non nel modo in cui lo si fa di solito.

Molti indie games sono in 2D, spesso a scorrimento laterale, evidentemente per motivi di budget. Questa scelta (in molti casi forzata, appunto) sta però segnando, di fatto, un ritorno a quelle che sono state le origini del videogioco. Una corrente piuttosto curiosa in un’era che sembrava inevitabilmente avviata verso il 3D, il realismo e il fotorealismo, non trovi?

Sì, è così. Hai citato le basi della situazione e non c’è molto altro da aggiungere, eccetto che ci sono un sacco di aspetti positivi nel fare un gioco in 2D, oltre alla convenienza economica. Se un creatore ha a cuore il gameplay e sta provando a fare qualcosa di molto dettagliato, allora il 2D è generalmente migliore del 3D, perché è molto più facile realizzare qualcosa in 2D: hai un maggiore e più preciso controllo sui vari dettagli. Con la stessa mole di lavoro, un gioco 2D sarà più pulito e rifinito, in termini di design, rispetto a un gioco 3D. Ecco perché incoraggio i designer a fare giochi in 2D quando possibile. (Il mio prossimo gioco sarà in 3D, sfortunatamente!)

Cosa (e come) possono offrire di più, oggi, quei generi che hanno fatto la storia delle origini del videogioco (sempre che ti piaccia parlare di “generi”)? Con Braid, ad esempio, hai ripreso le meccaniche di Super Mario (citandolo addirittura in modo esplicito in certi passaggi), ma il risultato è qualcosa di assolutamente nuovo, anche grazie a un’estetica molto particolare. La mia idea è che oggi si conoscano meglio le potenzialità del linguaggio video ludico; il videogioco si è iniziato a studiarlo, i suoi meccanismi sono stati in parte sviscerati, ed è quindi possibile usarli in modi (e a fini) diversi. È lì che emerge l’impronta dell’autore, no?

Non sono molto sicuro su come rispondere a questa domanda. Penso che la storia dei videogiochi sia interessante, ma non ho molta nostalgia del passato (molti di quei giochi erano davvero brutti). Inoltre, non penso che siamo ancora abbastanza vicini alla comprensione del vero potenziale dei videogiochi, quindi non posso essere d’accordo sul fatto che abbiamo una buona visione di ciò che questo “linguaggio dei giochi” possa essere. Siamo ancora in una fase embrionale.

Credi sia possibile parlare di vera e propria autorialità nei videogiochi? Voglio dire, quanto c’è di Jonathan Blow all’interno dei videogiochi che crea?

Penso che questa sia una domanda a cui la gente potrà rispondere da sola una volta che sarà uscito il gioco (The Witness, ndr). Non sono molto propenso a parlare di autorialità; ciò che mi interessa è ricercare quelle tematiche che possono essere esplorate attraverso il game design.

Digital delivery: pensi che il successo dei giochi indie in questa generazione potrà avere un riverbero sul futuro della distribuzione dei titoli a più alto budget? Come vedi (o ti auguri che sia) il futuro sotto questo aspetto?

È difficile dirlo. Non sono neppure sicuro che i giochi ad alto budget esisteranno ancora, così come li conosciamo, nella prossima generazione di console. È tempo di grandi cambiamenti, dobbiamo solo aspettare e vedere cosa accadrà.

Leggi il resto dello speciale indie su Players 15, scaricabile gratuitamente dal nostro Archivio.



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