Nella recensione di Spec Ops di settimana scorsa il nostro Enzo D’Armenio esordiva ragionando per astratto, ipotizzando che narrazione e gameplay possano essere due elementi separati nella natura del videogioco. Quello che a prima vista può sembrare un paradosso, utile in questo caso a introdurre alti e bassi del gioco in questione, è stato per lungo tempo un acceso motivo di discussione, e per alcuni estremisti addirittura un assioma da cui partire per intavolare una discussione sul videogioco. I Game Studies, disciplina accademica nata all’inizio del nuovo millennio per garantire dignità ed autonomia allo studio del videogioco, hanno dedicato i primi anni della propria esistenza alla trattazione del problema, nel vano tentativo di stabilire se la componente narrativa sia effettivamente una parte integrante dell’essenza del videogioco, o solo un elemento spurio, accessorio, meno nobile insomma rispetto al cuore pulsante della esperienza videoludica che risiederebbe nel gameplay.

Nel mese di ottobre Segnocinema terrà degli incontri a Perugia, Bologna e Torino per presentare lo speciale su cinema e videogame. Per informazioni – e per recuperare il numero in questione –  vi rimandiamo al loro sito ufficiale.

L’introduzione all’interno della disciplina operata da Aaron Aarseth del concetto di testo ergodico, ovvero un testo in cui gioca un ruolo decisivo l’azione decodificante del fruitore, non è servita porre la parola fine sulla (sterile) diatriba, ma anzi è servita come spunto per la nascita di una ludologia radicale per la quale in un videogioco ogni elemento non direttamente riconducibile al gameplay sarebbe non solo superfluo, ma addirittura dannoso, arrivando ad auspicare in sintesi l’arrivo di una nuova generazione di videogiochi totalmente votata al gameplay, privi di quella componente narrativa colpevole, secondo gli esponenti di questa corrente, della deriva casual e commerciale del settore.

Benché questa posizione estrema si sia rivelata fondamentale per garantire al videogioco una autonomia disciplinare, impedendogli di essere invece considerato come una sotto-categoria di altri ambiti di ricerca, è difficile continuare a sostenere l’estraneità tra la componente narrativa e quella ludica nel gioco elettronico. Nella fiorente scena indie, che oggi rappresenta il terreno più fertile per la fioritura del gameplay e incarna il rifiuto verso le logiche economiche alla base della deriva casual tanto odiata dagli estremisti della ludologia più estremista, la componente narrativa è ancora presente, e anzi in alcuni casi – si pensi a The Binding of Isaac – rappresenta il lato più innovativo di titoli acclamati anche dall’utenza più hardcore. Addirittura, nel caso di giochi realmente privi di componenti narrative – Minecraft, DayZ – si assiste oggi al curioso fenomeno della costruzione a posteriori di un impianto narrativo operato dai giocatori in un secondo momento su blog e forum. La narrazione dunque è senza dubbio un elemento costitutivo del videogioco, e benché risulti costantemente sotto assedio perché tacciata di bassa qualità, negli anni è arrivata a ispirare cinema e letteratura, media nativamente narrativi.

Non sorprende dunque che Segnocinema – rivista di critica cinematografica distribuita in alcuni cinema e librerie Feltrinelli – abbia dedicato uno speciale estivo sul n. 176 al rapporto tra videogioco e cinema, “una storia pluridecennale di scambi, ruberie e prestiti – assolutamente reciproci – tra gli immaginari, le tecnologie e i linguaggi delle due forme espressive” [la citazione proviene dall’introduzione allo speciale curata da Marco Benoit Carbone che potete leggere qui]. I diversi contributi si interrogano sulla liceità di parlare di videogiochi nell’ambito della critica cinematografica, approfondiscono il percorso comune delle due discipline verso la creazione di mondi immaginari costruiti attraverso le immagini, esplorano i diversi effetti di immersione generati dal grande schermo e dal monitor del PC e gli universi narrativi espansi che nascono su un media e continuano a vivere nell’altro, riflettendo infine sui comuni problemi di catalogazione connessi alla determinazione dei generi e dei loro confini. Dall’interessante esame dei piani di scambio tra cinema e videogioco realizzato da Segnocinema emerge un’interessante considerazione: attraverso le potenzialità offerte dall’interattività, il videogioco espande il concetto stesso di narrazione, portandolo verso un territorio inaccessibile a cinema e libri, quello del possibile. Non una mera evoluzione del cinema, dunque, quanto piuttosto un nuovo stadio evolutivo nelle possibilità narrative a disposizione dell’uomo, maturato anche grazie al continuo rapporto di interscambio col grande schermo.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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2 Comments

  1. La posizione estrema che dice che il cuore del videogame è solo nel gameplay è una stronzata. I videogame permettono di manipolare simboli e la manipolazione di simboli inevitabilmente diventa narrazione astratta o esplicita che sia.

    1. Sono d’accordo, anche perché è difficile non considerare la questione di calare il giocatore in un ruolo. Per rimanere bassi, se mi fanno usare un soldato o Super Mario, a parità di meccaniche, non potrà mai essere la stessa cosa a livello “di senso”.

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