Liberati dalla schiavitù del modello broadcasting, gli esseri umani non hanno tardato a trasformarsi, chi più chi meno, in autonome fonti emittenti al grido di “be your media”. Piuttosto che continuare a subire palinsesti decisi da altri, si è iniziato a gozzovigliare con le appetitose opportunità offerte dai nuovi tools digitali: un vero e proprio banchetto alla Rabelais nel quale è via, via, scomparsa ogni distinzione tra flussi mainstream e antagonisti, cultura “alta” e “bassa”, professionalità ed amatorialità, originale e copia.

Una colossale sbornia i cui postumi continuano a obnubilare la mente di tanti (troppi) che pur dovrebbero, per vocazione intellettuale o ruolo sociale, affrontare i nuovi media con spirito critico.

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Tra le prospettive maggiormente mistificatorie è agevole isolarne una che, resistendo sin dalle fasi aurorali dell’avvento dei nuovi media, può ben essere considerata un vero e proprio mito fondante della contemporaneità digitale; si tratta del “mito dell’interattività”, rispetto al quale da molto tempo si sollevano voci critiche e, tra queste, una delle più autorevoli è quella di Lev Manovich (Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano, 2004) che osserva come, applicando tale concetto unicamente ai nuovi media, si rischia di rimanere imprigionati in un’interpretazione strettamente letterale della parola “interazione”, ovvero in un’interpretazione che privilegia il concetto di “physical interactivity” (cliccare con il mouse, schiacciare tasti sulla tastiera ecc.) in luogo della “psychological interactivity” che è, invece, una caratteristica comune anche ai vecchi media.

Relativamente all’interattività fisica è possibile osservare, come fa Florian Cramer (Words Made Flesh: Code, Culture, Imagination, Piet Zwart Institute, Rotterdam, 2005) a proposito della “classical interactive art”, che spesso essa si riduce a una “behaviorist simulation of interactivity through a predefined set of actions and reactions”.

L’utente è dunque chiamato semplicemente a schiacciare tasti qua e là secondo schemi rigidamente predefiniti dall’autore/programmatore e finisce per operare come le cavie utilizzate in quegli esperimenti (particolarmente in voga negli anni Sessanta) volti a verificare la risposta degli animali a determinate sollecitazioni visive o uditive. (…) Per Manovich il privato e l’individuale, cristallizzati grazie all’apporto dei media in una forma standardizzata e trasportati all’esterno, divengono di dominio pubblico e perdono la propria unicità in favore della massificazione.

(…) Mentre le tecnologie culturali della società industriale (cinema e moda) inducevano a identificarsi con l’immagine del corpo altrui, le tecnologie dell’età dell’informazione favoriscono invece un nuovo tipo di identificazione: verso la struttura mentale altrui. Se ciò è vero, e in particolare se è vero che l’esperienza nel Web si esaurisce nel seguire sentieri disegnati da altri, è ancora possibile ritenere che sia l’utente a guidare effettivamente il proprio viaggio? Oppure è più corretto considerare il suo muoversi nel Web come un seguire una traccia?

Le traiettorie mentali altrui sono un pascolo sufficiente a saziare la fame della maggior parte degli utenti del Web

Un’immagine che potrebbe descrivere efficacemente tali dinamiche è quella di un uccello che vola in stormo: questi ha la “libertà” di distaccarsi dagli altri uccelli per compiere evoluzioni individuali, anche se finisce per rimanere bloccato nelle traiettorie che compie lo stormo. Ecco un fenomeno simile è quello che accade nel Web: l’utente è potenzialmente libero di dare vita a esplorazioni solitarie e di tracciare inediti e sorprendenti percorsi, nella realtà ciò che fa per la maggior parte del tempo è quello di seguire in maniera pedissequa i flussi principali, che – a ben vedere – altro non sono se non traiettorie mentali altrui.

In altre parole, le traiettorie mentali altrui sono un pascolo sufficiente a saziare la fame della maggior parte degli utenti del Web.

Il fenomeno chiamato Web 2.0 è un felice terreno di osservazione da questo punto di vista; nei social network l’utente visita e si iscrive ai gruppi ai quali i propri amici/contatti hanno accordato la propria preferenza, naviga i siti preferiti da altri utenti che li hanno aggiunti ai propri shared bookmarks, predilige i video e i brani musicali al top delle categorie “most viewed” e “most ranked”, entra nelle chat-rooms con più ospiti, nei forum contribuisce ai topic con un più elevato numero di post, fruisce continuamente di contenuti “related”, preferisce le pagine che figurano tra i primi dieci risultati del motore di ricerca consultato, legge articoli da rassegne stampa che altri hanno assemblato e così via, in una continua routine auto-referente. Come osserva Lovink: “The coded maxim here is: I want to see what you see”(The Art of Watching Databases, Stichting All Media, Amsterdam, 2008).

L’elemento più interessante è che tali flussi sono caratterizzati prevalentemente da un’esteticità diffusa. Al loro interno i contenuti sono quindi percepiti unicamente su un piano formale mentre ogni interpretazione semantica è semplicemente fuori discussione. Questi flussi rappresentano la vittoria finale del significante sul significato, in essi la ricorsività di forme standardizzate largamente condivise rappresenta l’elemento qualificante o, in altre parole, ciò che assicura la supremazia nella lotta per accaparrarsi l’attenzione (e i click) delle masse di internauti (…).

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I social network e l’espropriazione della filosofia comunitaria

Oggi la filosofia comunitaria è stata espropriata dai social network commerciali ed è divenuta la bandiera dietro la quale i vari Twitter, Facebook, MySpace, Flickr, YouTube, LinkedIn, QQ in Cina, Cyworld in Sud Corea ecc., ammantano l’inganno perpetrato a danno di milioni di utenti inconsapevoli: quello di aumentare il proprio valore economico grazie ai contenuti generati da utenti non retribuiti.

È doveroso segnalare come molti ritengano che vi sia consapevolezza negli utenti, anzi, alcuni come Michel Bauwens, sostengono ci sia un vero e proprio contratto sociale tacito per cui gli utenti accetterebbero che la propria attenzione sia monetizzata attraverso la pubblicità, finché questa non interferisce con le proprie pratiche di condivisione.

Pur non negando che esistono moltissimi utenti che partecipano volontariamente a tale “economia dell’attenzione”, continuo a ritenere che sui grandi numeri prevalga l’atteggiamento inconsapevole di chi è grato per gli strumenti che gli sono offerti “gratuitamente” e non si rende conto di essere espropriato a tutto vantaggio delle corporation proprietarie dei siti. A ben vedere, il fenomeno dei social network si inserisce perfettamente nella deriva immateriale dell’economia postfordista e, in particolar modo, in quel rigurgito di tardo capitalismo iperglobalizzato noto ai più come “capitalismo cognitivo”(…).

La strategia vincente del capitale internazionale è stata dunque quella di impadronirsi di istanze e pratiche proprie della controcultura, in primis quella dello svincolamento della produzione culturale dal paradigma “lavoro-impiego”, ma – come osserva Geert Lovink (Zero comments. Teoria critica di internet, Bruno Mondadori, Torino, 2008) – ciò ha finito per beneficiare solo i ricchi, che sono diventati ancora più ricchi. Il teorico olandese invita dunque a chiamarsi fuori dalla logica che domina il Web 2.0 per cui regalare i propri contenuti è diventata l’unica opzione disponibile.

[Continua…]

Questo articolo è tratto da Players 18, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.

Le illustrazioni sono di Domenico Barra http://www.behance.com/dombarra e http://dombarra.tumblr.com



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4 Comments

  1. L’articolo è molto interessante e offri parecchi spunti, ma devo ammettere che ho faticato un po’ a leggerlo, soprattutto la prima parte. Il linguaggio è un po’ troppo forbito secondo me, e le citazioni le ho solo intuite :(

    1. Sì, non è semplicissimo. Credo fosse originariamente qualcosa tipo un saggio accademico. Oggi va online la seconda parte.

      1. Togli il “credo” :-)

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