Indonesia, 1965: il partito comunista (PKI), allora al potere, viene rovesciato da un colpo di stato messo in atto dal generale Suharto con la complice “assenza” della stragrande maggioranza dei governi occidentali, americano e inglese in primis. Suharto resta al potere per oltre trent’anni, durante i quali fa piazza pulita degli oppositori. Letteralmente: i “comunisti” torturati e uccisi variano, secondo le stime, da mezzo milione a oltre due. Un vero e proprio genocidio, per il quale gli autori (in particolare Anwar Congo, leader indiscusso della Pancasila Youth, l’organizzazione paramilitare responsabile delle stragi) non hanno ricevuto alcuna condanna o incriminazione. Anzi, vivono ancora oggi felici, beati, idolatrati dalla popolazione e hanno sviluppato nel corso degli anni un discutibile senso dell’umorismo.

Capita poi che un regista angloamericano (è nato in Texas ma vive a Londra da anni), Joshua Oppenheimer, decida di riaprire i libri di storia e descrivere quel periodo, facendosi finanziare da due golem dell’arte del documentario (Werner Herzog ed Errol Morris) e si rechi in Indonesia per ottenere informazioni direttamente dalle fonti. Ossia dai carnefici di quel periodo. La proposta del regista è però bizzarra e decisamente atipica: invece della solita serie di interviste e “filmati d’epoca”, Oppenheimer propone a Congo e compagnia brutta di “interpretare” se stessi e riprodurre le vicende di quegli anni, mettendole in scena come se si trattasse di girare un film hollyoodiano d’azione, un musical, uno zombie movie da due soldi o una soap opera. Un po’ come se Hitler, Pol Pot e Stalin, invecchiati e amatissimi dalla popolazione, tirassero fuori dall’armadio le divise impolverate e decidessero di mettere in scena i “bei tempi andati”.

Il risultato è The Act of Killing, documentario (termine che gli va strettissimo, si dovrebbe coniarne uno ad hoc solo per questo film) che descrive con leggerezza, brio e una vena sinistramente ironica, gli efferati delitti perpetrati da una banda di criminali (come loro stessi si definiscono) ma raccontati dagli stessi autori. Che, effettivamente, denotano una certa creatività nel rappresentarsi in scena. Anwar Congo in particolare, nei primi minuti del film, ci delizia dandoci dritte su come ammazzare un uomo senza eccessivo spargimento di sangue, sulle scuse da addurre quando si viene accusati di omicidio (“ehi, per denaro questo e altro”), cosa bisogna fare ai figli delle vittime per evitare vendette o ritorsioni (“eliminarli tutti”), come celebrare gli omicidi (“ballare il cha cha cha”) e cosa pensare degli americani (“puntano il dito ma poi hanno sterminato gli indiani e nessuno li ha processati per questo”).

Mano a mano che il film procede e le rappresentazioni, sempre più grottesche, vengono messe in scena (con un taglio assolutamente credibile, tra l’altro, visto che le “comparse” scelte credono davvero che si stiano per svolgere atti di violenza, bambini in primis), inizia però anche un impensabile percorso di autocoscienza da parte del carnefice, che, messo di fronte alle sue malefatte, non si pente del tutto, ma vede incrinate le sue assolute certezze. Una sorta di “cura Ludovico”, sempre mediata dal mezzo cinematografico, dai costumi sgargianti, dalle litanie musicali locali, dai balletti e dal trucco e parrucco.

Pietra miliare assoluta nel genere documentaristico, The Act of Killing (da notare l’ambivalenza del titolo che può indicare sia l’atto dell’uccidere che la sua messa in scena), non concentra la sua attenzione sulla realtà, ma sulla rappresentazione della stessa. Un’opera terribilmente inquietante ma allo stesso tempo (e forse proprio per questo) umanissima: il male a volte è talmente permeato nella società (indonesiana in questo caso, che effettivamente non ci fa una figura particolarmente nobile) da impedire da parte di quest’ultima una qualsivoglia forma di interrogativo, domanda o dubbio. “È buffo come i colori del vero mondo diventano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo” diceva saggiamente Alexander de Large. E aveva ragione!

Il Male, insomma, affascina sempre. E spesso vince.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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