Sembra scontato che, quando un artista originale arriva al successo, perda improvvisamente la voglia di correre rischi e imboccare strade nuove. Ma questo principio pare non valga per Steven Wilson, il quale, dopo aver impiegato 25 anni a trasformare i suoi Porcupine Tree da progetto amatoriale a band sotto contratto con una major, ha poi deciso di congelarli indefinitamente per dedicarsi a un percorso solista impegnativo e ben lontano dai gusti del grande pubblico.

Tutto è cominciato con Grace for Drowning, disco solista (recensito su Players 10) in cui Wilson, dopo anni di approccio obliquo al prog rock, ha affrontato per la prima volta il genere nella sua forma più pura e vicina al jazz. Per portare in tour i brani di quel disco ha messo insieme una band eccezionale, formata in ugual misura da talenti consolidati (il flautista e sassofonista Theo Travis, già collaboratore di Robert Fripp; il tastierista Adam Holzman, della band di Miles Davis; il bassista e stickman Nick Beggs, con un curriculum che va dai Kajagoogoo alla band di Steve Hackett) e spettacolari giovani promesse (il batterista Marco Minnemann e il chitarrista Guthrie Govan), e che ha raggiunto nel corso del tour un notevole affiatamento. A questo punto Wilson, trovatosi per la prima volta nella posizione di poter affidare ad altri gran parte del lavoro strumentale, ha deciso di sfruttare l’occasione e di comporre brani pensati in modo specifico per quel gruppo di musicisti. Il risultato è The Raven That Refused to Sing.

Fin dal primo ascolto colpisce l’estrema qualità della registrazione, che permette di discernere i dettagli più minuti del complesso impasto sonoro (alle parti già intricate dei sei strumentisti si aggiunge spesso un mix di archi veri e sintetici). L’abilità di Wilson come produttore è nota, e si è ulteriormente affinata in questi ultimi anni, in cui si è dedicato alla produzione di remaster in formato 5.1 di quasi tutte le band storiche del prog rock (King Crimson, Jethro Tull, Caravan, E.L.&P., Yes). Per questo album si è però fatto affiancare da Alan Parsons in qualità di tecnico del suono. Sulla carta la scelta lasciava perplessi: Parsons è un personaggio quasi mitologico, che ha firmato il suono di capolavori come Abbey Road dei Beatles e Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, ma da decenni che non si occupava di dischi diversi dai propri. Il risultato, però, fuga ogni dubbio.

Il CD contiene sei lunghi brani; i dispari hanno strutture complesse, con lunghe jam strumentali, mentre i pari sono più vicini alla forma canzone. I testi hanno tutti a che fare con la morte e il soprannaturale, e come di consueto evocano soltanto delle storie, più che raccontarle. Si comincia alla grande con Luminol, eccezionale e tiratissima performance strumentale, con al centro un intermezzo semiacustico degno dei Porcupine Tree più sognanti.

Drive Home inizia in modo malinconico e corale, attraversa passaggi reminiscenti dei primi King Crimson e termina con un notevole assolo di chitarra di Govan. The Holy Drinker è sorretto in principio da uno splendido riff di Hammond, e si evolve verso cupe atmosfere orchestrali. The Pin Drop, il pezzo più breve, nello stile vocale e nell’arrangiamento ricorda molto i Pink Floyd di The Wall (ma Wilson è tra i pochi a poterli citare in modo così esplicito senza cessare di essere se stesso). The Watchmaker, murder ballad di quasi dodici minuti, procede da intrecci di chitarre acustiche verso un rock sinfonico alla Genesis, per poi concludere ancora una volta in modo cupo e quasi infernale. L’album si chiude con la title-track, che comincia in sordina, con un impasto di voce, pianoforte e archi che ricorda un certo indie rock americano, e avanza in crescendo verso un maestoso e triste finale.

Non userò mezzi termini: si tratta del miglior disco di tutta la carriera di Wilson. Una summa di tutto il meglio del prog rock, filtrato attraverso uno sguardo originale ed eseguito con maestria inarrivabile. Da non perdere.

Artista: Steven Wilson
Disco: The Raven That Refused to Sing
Etichetta: KScope
Selezionati per voi: Luminol, The Pin Drop, The Watchmaker



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Marco Passarello

Ingegnere non praticante, lettore (e occasionalmente scrittore) di fantascienza, noto anche con lo pseudonimo di Vanamonde (rubato ad Arthur C. Clarke). Per vivere esercita la dubbia professione del giornalista. Scrive su Nova 24, Pagina 99 e varie testate di settore, Ha fatto parte delle redazioni di Computer Idea e Computer Bild. Blog: (vanamonde.net/blog).

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