Quando Darren Aronofsky fu ingaggiato dalla Fox per dirigere The Wolverine, in quella che sarebbe dovuta essere la sua prima esperienza con un franchise cinematografico, il regista disse che ogni singolo film da lui realizzato fino a quel momento era stato prodotto e girato per sua unica volontà, poiché lui era realmente «l’unico nella stanza» a volerlo fare. Basta questo per restituire l’idea di un autore perennemente in bilico sul vertice dei suoi deliri immaginativi, sempre difficili da tradurre in immagine filmica senza rinunciare alla propria autonomia creativa, indispensabile per un cineasta come Aronofsky.

Se ha abbandonato The Wolverine è stato per non scendere a compromessi, e per continuare a seguire quella strada che lui stesso, con le sue nude mani, sta scavando di fronte a sé fin dai tempi di Pi Greco – Il Teorema Del Delirio(1998), film che sembra soddisfare tutti i requisiti stereotipati del debutto “d’autore”: budget molto ristretto e raccolto fra amici e parenti, fotografia in bianco e nero, presentazione con successo al Sundance e, infine, l’immancabile alone cult tra i cinefili di tutto il globo. Niente male per un ventinovenne di Brooklyn che cominciò a esprimere la sua vena artistica da adolescente, dipingendo graffiti sui vagoni della metropolitana, prima di studiare biologia, antropologia e poi cinema all’università di Harvard.

In questo singolare esordio Aronofsky sparge i semi del suo cinema futuro, poiché traccia uno schema che finora non ha mai tradito: alla base delle sue storie c’è sempre un personaggio che coltiva un’ossessione, ed essa lo consuma come un parassita, traghettandolo verso una fatale autodistruzione. L’ossessione del geniale Maximillian Cohen, il protagonista di Pi, è la ricerca della sezione aurea come costante dell’universo, da cui deriva l’idea che tutto, in natura, sia comprensibile attraverso i numeri. La sua indagine si apre su scorci metafisici e Aronofsky dimostra – con una presunzione tipicamente giovanile, ma supportata dal talento – di puntare subito in alto: attingendo alle sue radici ebraiche, il regista incrocia la ricerca di Cohen con lo studio matematico della Torah, che conterrebbe un messaggio in codice inviato direttamente da Dio.

Tra sacro e profano, ebraismo ortodosso ed economia finanziaria, massimi sistemi e materialismo terreno, Pi forza i limiti della comprensione umana, che vacilla di fronte alla luce bruciante della verità rivelata: Cohen, in possesso del nome impronunciabile di Dio che potrebbe annunciare l’arrivo del Messia, non è più in grado di sopportare il peso della conoscenza, e si libera del suo “dono” trapanandosi il cranio. Il prezzo della pace è il sacrificio del genio.

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Pur dichiarandosi un figlio dell’«era di Spielberg e George Lucas», Aronofsky imbocca un percorso off Hollywood che, nel suo debutto con Pi, subisce addirittura l’influenza del primo Tsukamoto, sia nella fotografia “sporca” sia nelle scelte formali, per non parlare poi del rapporto morboso che lega Cohen alla macchina (in questo caso il suo computer, Euclide). Quella raccontata da Aronofsky è un’umanità che spesso si chiude nell’iterazione compulsiva dei riti quotidiani, descritti nei particolari attraverso un montaggio serrato, nervoso, fatto di inquadrature brevissime e concentrate su singoli dettagli, scomponendo un gesto banale (ad esempio l’assunzione di una pillola) in un puzzle di azioni concatenate.

Un processo che Aronofsky ripete nel successivo Requiem For A Dream (2000), dove il cosiddetto “hip hop montage” – questo il nome assegnatogli dal regista – viene utilizzato per ritrarre la degenerazione dei protagonisti nella tossicodipendenza, affrontando il demone della droga secondo un spettro più ampio rispetto ai soliti drug movie: non solo l’eroina, che schiavizza i personaggi di Harry, Tyrone e Marion, ma anche il cibo e la televisione, idoli seducenti che tormentano la madre di Harry, Sara, e che si dimostrano altrettanto nocivi. La parabola di Requiem for a Dream, tratta da un controverso romanzo di Hubert Selby Jr., è ovviamente votata all’autodistruzione, una sorte che accomuna impietosamente i quattro protagonisti.

Il sogno di cui si celebra il requiem è quello americano, corrotto dalla venerazione di falsi dei (successo facile, celebrità mediatica) e sfociato progressivamente in un delirio psicotico, popolato da allucinazioni grottesche e vane illusioni. L’elemento visionario, stavolta, perde eleganza e rischia di scivolare nel kitsch più pretestuoso, ma Aronofsky si avvale della memorabile colonna sonora di Clint Mansell, suo abituale collaboratore, che con la traccia Lux Aeterna – tema musicale ormai inflazionatissimo tra i confezionatori di trailer – ammanta di epicità anche il più infimo squallore esistenziale, trasfigurando i personaggi in caratteri simbolici, emblema e sintesi di un mondo disilluso e privo di speranza.

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Il successo ottenuto con entrambi i film gli permette di entrare nei meccanismi dell’industria cinematografica americana; così, dopo aver prodotto e co-sceneggiato Below di David Twohy, e dopo aver visto sfumare l’adattamento di Batman: Year One con Frank Miller, Aronofsky concentra le sue forze su un progetto molto personale, The Fountain, uscito nel 2006 dopo una lavorazione travagliata che ha comportato il dimezzamento del budget (da 70 a 35 milioni di dollari) e l’avvicendamento di diversi attori nei ruoli principali. Il risultato è un ambizioso poema visivo che, ancora una volta, punta a sfidare i limiti della conoscenza umana, indagando il rapporto con la morte e la ricerca della vita eterna: diviso fra tre piani temporali, il protagonista di

The Fountain, deciso a salvare la donna amata, insegue il mitico Albero della Vita citato nella Genesi, e finisce per sacrificare se stesso nei suoi frutti miracolosi. Aronofsky dimostra un grande talento visivo nell’impiego della macrofotografia per gli effetti speciali, e il suo occhio è chiaramente rivolto a Kubrick, ma il film perde di vista le ambizioni metafisiche in luogo del puro romanticismo, e la critica non glielo perdona.

Sembrerebbe un colpo da K.O., considerando anche il flop al botteghino americano. Aronofsky, però, coglie l’opportunità per cambiare registro: recupera un’idea che gli ronzava in testa da più di dieci anni, ingaggia lo sceneggiatore Robert D. Siegel per svilupparla in un copione, e si presenta alla 65ma Mostra del Cinema di Venezia con The Wrestler (2008), che vince il Leone d’oro e rilancia la carriera di Mickey Rourke. L’attore, che anni prima aveva abbandonato il cinema per dedicarsi alla boxe professionistica, vive la storia del wrestler Randy “The Ram” Robinson come fortemente autobiografica, e Aronofsky lo pedina nei suoi disperati tentativi di riscatto, rinunciando alle deviazioni allucinatorie che affollavano le sue opere precedenti. The Wrestler, al contrario, è un film di carne e sangue, ancorato alla realtà dolorosa degli emarginati, degli sconfitti, di un uomo che ha vinto sul ring – vittoria fittizia, poiché nel wrestling gli incontri sono accuratamente coreografati – ma ha perso nella battaglia degli affetti personali; e allora, nell’epilogo, a Randy non resta che offrire il suo corpo, la sua vita, in pasto a quel pubblico che non ha mai smesso di amarlo, ma che divora i suoi idoli con la voracità di una bestia affamata.

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The Wrestler forma un dittico ideale con il film successivo di Aronofsky, Il Cigno Nero (2010), nella misura in cui entrambi ruotano attorno a un personaggio che s’immola sull’altare della propria arte. In questo, caso, però, Aronofsky adotta le soluzioni stilistiche del cinema di genere, e in particolare quelle del mistery e dell’horror: nella storia di Nina, ballerina di talento che aspira al ruolo di protagonista ne Il lago dei cigni di Čajkovskij, s’incrociano due temi archetipici, la metamorfosi e il doppelgänger, foraggiati da un parallelo costante tra la vicenda biografica della ragazza e l’opera che viene messa in scena. Il gioco è tutto psicologico. Aronofsky non pone argini tra realtà e fantasia, ma lascia che la seconda fluisca nella prima, in un vortice di paranoia polanskiana (Repulsion e L’inquilino del terzo piano sono le fonti d’ispirazione principali) che si articola nella ricerca, naturalmente ossessiva, della perfezione. «L’ho sentito. Perfetto. È stato perfetto» mormora Nina dopo avere eseguito il suo ultimo numero, poco prima che un bianco abbacinante inondi l’inquadratura, portandola via con sé in un “altrove” dove incontrerà Randy e tutti gli altri martiri del sacrificio artistico. Il cigno nero è una riflessione sulla multiforme complessità del corpo performante, e si allaccia a The Wrestler non solo per l’evidente somiglianza dello schema narrativo, ma anche per la centralità assoluta dell’attore: Mickey Rourke e Natalie Portman, pur incarnando un dualismo bipolare tra potenza ed eleganza, tra brutalità e grazia, rispecchiano l’essenza del performer, e «fanno un uso incredibile dei loro corpi per esprimere se stessi», dice Aronofsky.

È proprio questo dittico a dimostrare l’imprevedibilità di un regista che sfugge alle facili classificazioni, sia di stile sia di genere, ed è capace di reinventarsi senza perdere l’intimità del suo sguardo autoriale. Cantore dell’umanità errante, pedinatore di ossessioni compulsive, Aronofsky incolla la macchina da presa ai suoi personaggi e li accompagna nella densa oscurità del loro abisso interiore, che ci obbliga a specchiarci sulla sua lucida superficie bruna, dove inevitabilmente scorgiamo anche qualcosa di noi stessi. Sarà per questo che ogni suo film lascia una sottile traccia di disagio: Aronofsky non viene a patti con le esigenze degli spettatori, non gratifica la loro brama di soluzioni pronte e finali concilianti, ma li spinge ad affrontare le proprie zone d’ombra, a superare i limiti autoimposti della psiche.

Se vogliamo entrare in contatto con il suo cinema e i suoi personaggi, dobbiamo imparare a condividerne anche le ossessioni.

 



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