Cara Sofia, hai fatto un passo falso. Il tuo Bling Ring è un pezzo di bigiotteria scolorita in mezzo a diamanti fancy e perle rare. Tra le tue vergini suicide e queste piccole dive da reality ci passa una talentuosa filmografia. Allora, sul finire dei Novanta, ti eri lasciata conquistare dall’opera di prima di uno dei migliori scrittori contemporanei – ricordo ancora di aver noleggiato il VHS da Blockbuster un pomeriggio di Ottobre, per darti un’idea di quanto ti sia fedele – questa volta, invece, ti sei lasciata sedurre da un effimero articolo su Vanity Fair sulla generazione social. E la delusione era annunciata.

Le prime erano delle “sfiorate”, vivevano una crisi esistenziale di un’altra epoca, camminavano sul sottile filo che separa la notte dall’alba. Queste sono inconsistenti, prive di qualsiasi valore se non quello dei dollari e maledettamente noiose. Qui, la vacuità regna sovrana, mentre non c’è traccia, invece, della malizia e della freschezza con cui avevi magistralmente dipinto quell’altra regina, Maria Antonietta. Quello che resta è la stessa frustrazione, compensata dalla brama dell’oggetto feticcio. Bling Ring, cronaca distaccata delle bravate della Hollywood Hills Burglars, la teen-gang che dall’ottobre 2008 all’agosto 2009 rubò più di 3 milioni di dollari (abiti, accessori e altro) dalle ville di personaggi famosi, da Paris Hilton a Orlando Bloom, rappresenta una punta di squallore nell’ideale percorso che hai fatto fin dagli esordi nella vacuità nell’upper class americana, nell’eterea e inconsistente leggerezza del mondo dell’apparire. Che sembra trovare una luce positiva solo nell’amore platonico di Lost in Translation, che nasce però lontano dal suo naturale habitat.

Anche l’attore di Somewhere girava a vuoto, con la sua Ferrari, non aveva uno scopo, faceva parte dello show biz ma ne era profondamente annoiato, saturo. Tanto da decidere di abbandonarlo nel finale. In quest’ultimo ci mostri l’altro lato della medaglia, ci mostri l’isola dei non famosi, la brama di appartenere al mondo luccicante di Hollywood. Johnny Marco non andava mai a fondo, nel rapporto con la figlia, con le donne, con la ex moglie, galleggiava su un materassino in una piscina, rimaneva in superficie. Bling Ring è la fiera della superficialità. La prima ora è di una noia mortale, un’ora di autoscatti con il braccio teso e le facce da Lolite provocanti sui divanetti di un famoso locale di L.A., marchettoni pubblicitari alle firme del prêt-à-porter, carrellate di facce di personaggi dello show biz internazionale che vediamo in tv, sui giornali e on line 24 su 24 (non è abbastanza?) stessa sequenza di incursioni notturne nelle ville di Beverly Hills che si ripete.

La solitudine da relazioni 2.0 non lascia spazio ai rapporti d’amicizia, d’amore o di sesso, quello che lega i protagonisti sono gli oggetti, la Roba, come i tossici. Ma le bambine viziate e il ragazzino complessato non si sporcano le mani, non cercano emozioni estreme, non sono come le bad girl di Spring Breakers, nonostante la soundtrack di M.I.A. Non appartengono nemmeno a quel fenomeno recente delle studentesse universitarie che si prostituiscono per comprare l’ultimo bauletto Gucci. Queste preferiscono rubarlo alle loro star preferite. Sono frutto di una civiltà del possesso, “sei quello che hai”, l’espressione “minorenne” del capitalismo.

Ridicoli, Sofia, quei tentativi di approfondire alcuni risvolti psicologici (“sapevo di non essere bello – confessa l’unico maschio della banda – e soffrivo per questo”) è tutto di un piattume disarmante. Le colpe, giustamente, le attribuisci ai genitori, tutti diversamente assenti e agghiaccianti nella loro ingenuità.
L’unica domanda che sorge spontanea è: era necessario dedicarci un’ intera pellicola da 90 minuti film? Non bastavano i reality su MTV? Hai dichiarato che trovi preoccupante “il bisogno di condivisione sui social network e la fascinazione degli adolescenti per le celebrità” – ti risponderei dicendo che c’è di peggio – e di essere stata “attenta a non glorificare i crimini di questa banda strafatta di bling culture per non trasformarli in idoli o eroi”. Peccato che tu ci abbia fatto un film.



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