La sfuggevolezza di momenti ruvidi e incompresi, le intemperie ardue della crescita, le pulsioni trattenute e le tensioni deflagranti. Qualche accenno di una filmografia, quella di Alfonso Cuarón, (ancora) breve ma già esaltata da uno stile preciso e gravida di consapevolezza tematica; mentre il cineasta messicano disperde Sandra Bullock tra le stelle di uno sci-fi coniugato nel thriller emotivo, ripercorriamo le tappe che lo hanno portato a dirigere l’episodio meglio recensito di Harry Potter, e ad aprire il festival di Venezia 2013 con una pellicola tridimensionale mozzafiato, protagoniste due star del firmamento hollywoodiano.

Uno per tutte (Solo tu pareya, 2001, inedito da noi) è un esordio anomalo ma già intessuto di uno sguardo in fieri; Cuarón punta su una commedia che nasconde amarezza, di verve spumeggiante e di tonalità erotiche che poi esploderanno – colorandosi di dramma e cinismo – nel film che l’ha esposto alla ribalta internazionale con tanto di candidatura all’Oscar per il miglior script: Y tu mamá también. Dove l’adolescenza è persa in un delirio narcotico di alcool e sesso, rotta preliminare un attimo prima di buttarsi in un futuro indefinito, un nuovo stato della vita: l’età adulta.

Fil rouge, quello del passaggio dalla giovinezza alla maturità (ma anche: dall’innocenza ingenua alla pubertà) che impregna in egual modo le due opere successive e che nel 2003 lo identifica come il miglior nome a cui il più infantile Columbus potesse passare la palla della saga teen potteriana, perchè lui stesso prestigiatore nel gestire i tormenti e i nuovi punti di vista della giovinezza, e i grandi racconti di materia narrativa complessa ma diretta al grande pubblico. Tali La piccola principessa (1995: lieve ed incantevole, prova materiale dell’eclettismo di Cuarón capace anche di essere teneramente puerile), ma soprattutto Paradiso Perduto (1998), versione moderna del romanzo Grandi speranze di Dickens (scrittore cui la Rowling ha sempre dichiarato di rifarsi e ispirarsi), racconto iniettato però in un sentimento contemporaneo di disorientamento e passione interrotta; segue la consacrazione sopraccitata Y tu mamá también.

Della saga Cuarón ha fatto qualcosa di diverso, evidenziando tensioni e pulsioni puberali dei ragazzi magici: non a caso Il prigioniero di Azkaban è il capitolo più amato e più cinefilo ma anche il più dark (oltre che uno dei più differenti dall’originale letterario). Il disorientamento che Cuarón ritrae è anche sessuale, purché ovviamente stavolta non esplicito: fatto sta che la storia si tinge di tratti orrorifici e scoppietta di ormoni ballerini, la rabbia si accompagna alle cotte e alla difficoltà del coming of age, ci si sente traditi dagli adulti e da una magia incapace di riempire i vuoti.

Ogni passaggio è sempre una prova del fuoco, una marchiatura; e se quella di Cuarón come regista potteriano dura soltanto un film, nella sua opera seguente il varco adolescenza/maturità è ormai attraversato (almeno fisicamente), ed è però un’evoluzione che ci si è ritorta contro: I figli degli uomini ritrae un futuro distopico, sporco e livido, piagato da un’infertilità mondiale, dove la maturità sociale è ancora lontana e l’adulto Clive Owen è un uomo disilluso e senza desideri. Mentre i punti di riferimento crollano, il realismo dell’azione si fa suspence insostenibile, fuga perenne ma anche parabola umana e fitta di simbologie: una nuova Maria incinta viene portata in salvo dal burbero Owen, tuttavia non c’è alcun ammiccamento cristologico né ideologizzante, siamo protetti dalla limpidità di uno sguardo lucido; e la regia più che mai conscia delle proprie potenzialità azzarda (ed è una scelta vincente) un lungo piano sequenza su una corsa tra sparatorie, inseguimenti, respiro mozzo e cielo minaccioso, creando un effetto claustrofobico egregio (e la claustrofobia la si sente opprimerci perfino nel cosmo di Gravity). E alla fine la luce, la speranza si consegna all’acqua.

Ne I figli degli uomini è dunque una nascita attorno a cui gravita la concitazione del narrato, la fiducia del genere umano: tra questo film e Gravity c’è uno iato temporale di ben sette anni, e si è compiuto un ulteriore passo – benché piccolo -, drastico: la speranza si è (apparentemente?) dissolta, perché la dott.ssa Ryan Stone (Bullock) ha perduto la figlia piccola, e per lei il futuro non è più uno scorcio di promesse bensì uno squarcio doloroso sul ventre. Per dimenticare il passato Ryan cancella dalla sua vista e campo visivo il mondo intero, annullandosi in un’ingombrante tuta da astronauta e nel silenzio esteriore dello spazio. Ma la vita, persino nell’infinità dell’oblio spaziale, continua a premere su di noi; e tra una pioggia di meteoriti e altri eventi sfortunati – che stavolta sono trampolino di lancio per una ripartenza -, Ryan affronterà catarsi, resurrezione e riconsegna al mondo (ancora una volta si torna alla vita dall’acqua), in un film che pur cedendo un po’ al sentimentalismo, e alla rigenerazione con le proprie forze tanto cara al sentire hollywoodiano, ha una potenza visiva ed emozionale davvero imponente.

Gravity è infatti un’esperienza tridimensionale esaltante e spesso terrific (in tutti i sensi: terrificante e grandioso), elevata da una regia che nell’immensità della ripresa e della sala fa mancare l’aria.
Partenze e ripartenze, verso una meta nuova: in qualche modo la parabola cuaroniana è sempre questa: la rinascita, resuscitare dalle ceneri le proprie ceneri: che lo faccia una donna distrutta e distante o un uomo solitario, un maghetto orfano o una bambina fiduciosa, è condizione umana universale per il cinema di questo autore. Prossima tappa: un horror. Ci lecchiamo già i baffi.



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