Una virgola può cambiare il senso di una frase e l’aggiunta di un articolo creare un abisso sul grande schermo. Infatti, il capolavoro di Lumet era Quinto potere, da non confondere invece con Il quinto potere film di Bill Condon (già regista di Demoni e dei e Dreamgirls) sull’affare Wikileaks. Mentre da 500 giorni Julian Assange è confinato nell’appartamento londinese a Knightsbridge, sede dell’ambasciata dell’Equador, al cinema viene presentato, con un trailer avvincente in pieno stile 007, il suo biopic non autorizzato, anzi, apertamente osteggiato.

Scritto da Josh Singer, che si è ispirato a due libri Inside WikiLeaks: My Time with Julian Assange at the World’s Most Dangerous Website di Daniel Domscheit-Berg, ex collaboratore di Wikileaks ora in causa con Assange, e WikiLeaks: Inside Julian Assange’s War on Secrecy di David Leigh e Luke Hardin, giornalisti del Guardian coinvolti nei fatti, Il quinto potere ripercorre la storia di un’amicizia nata sotto una buona stella e finita nel celodurismo di due soci/nemici/competitors.

I due amici nell’era digitale, vedi The social network, sono Julian Assange (un bravissimo Benedict Cumberbatch), fondatore della più grande piattaforma per la diffusione di informazioni on line, e Daniel Domscheit-Berg (Daniel Brühl, in questi giorni in sala anche nei panni di Niki Lauda in Rush, tutt’altro film, e che film!). Questo, invece, è pura cronaca, non si sa quanto fedele, non senza qualche forzatura da melò. Condon non prende posizioni, lascia appese domande e non indaga sulle origini o sulle conseguenze (a parte qualche nota sul finale), ma divide i buoni dai cattivi senza concessione di sfumature. Traccia la sottile linea che separa ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, accenna al dilemma “sacrificarne uno per salvarne molti” facendo pronunciare il discorsetto al giornalista della carta stampata alla soglia della pensione, ultimo baluardo della vecchia morale. Vuole correre alla velocità di un thriller ma rimane immobile sull’involuzione del rapporto dei due protagonisti, da complicità a tradimento, riducendo tutto a invidia, rivalsa, rancore.

Assange viene dipinto come uno schizofrenico giornalista megalomane dominato da un lato oscuro frutto di presunti traumi infantili. E qui la psicanalisi spiccia si spreca. Ma il fondatore di Wikileaks, dopo un breve scambio epistolare con l’attore che lo interpreta, ha smentito e lanciato anatemi sul prodotto della Dreamworks, rispondendo con la sua pellicola alternativa Mediastan, a Wikileaks roadmovie.
Non proprio avvincente e cinematograficamente poco originale, la versione hollywoodiana non rende giustiza alla portata storica, politica e mediatica di un fenomeno senza pari, una fuga di notizie senza precedenti e la più grande minaccia alla sicurezza del sistema dello zio Sam. Julian Assange incarna il potere della comunicazione digitale, le possibilità che la tecnologia offre nel mondo dell’informazione dei new media e le nuove forme di attivismo politico, quel Quinto potere del titolo che rimane solo una furba citazione.



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