A conti fatti, Le passé è il sequel di Una separazione nella trama (un marito già ex deve firmare i documenti ufficializzanti il divorzio, comunque in atto da quattro anni) e il suo remake nella riproposizione dello stesso tipo di personaggi, di dinamiche narrative, del ribaltamento continuo dei punti di vista che dal secondo atto in poi lo mutano in un giallo alla ricerca della verità (mai raggiungibile completamente, da cui l’impossibilità della catarsi), e al contempo di esplorazione di motivazioni e sentimenti, tramite l’accumulo di dati che aggiungono tasselli ad un puzzle sbilenco e inquieto.

Nel mostrarne con limpida linearità la degenerazione progressiva, l’ottica di Farhadi passa attraverso oggetti (un ombrello, una valigia rotta, un abito macchiato) infestati dalla resilienza del passato, e che innescano reazioni e (la frattura di) relazioni, come grimaldelli che aprono porte chiuse a doppia mandata e riaprono ferite insanabili. Una separazione funzionava meglio sotto quest’aspetto: nella seconda parte Le passé s’incarta, non raggiunge i livelli serrati di soffocamento interno dell’opera precedente, la cui struttura è qui chiaramente riproposta per bissarne consenso e successo; e fa quasi sorridere che l’unico personaggio davvero positivo (fin troppo, prossimo alla santificazione, tanto da farti pensare: ma perché diavolo si son mollati?!) sia l’ex marito di lei, peraltro l’unico iraniano (Ahmad).

Gli altri personaggi sono umani troppo umani, ma i cui difetti ed errori si amplificano sotto il movimento della bontà di Ahmad, che fa letteralmente saltare a tutti la copertura. Come se Farhadi faticasse a mantenere un’intenzione super partes, l’equilibrio di una (comunque efficace) regia entomologica su uno spaccato social-familiare, mostrando altresì un personaggio strattonato dalle intemperie di questo ambiente, ma che rimane sempre puro, senza cadere in fallo, vacillare, errare (l’errare che è umano).

Eppure, dove Farhadi centra il bersaglio in maniera innegabile è nel rendere la consistenza tattile della distanza: il suo è uno sguardo che viaggia attraverso la chiusura, la divisione continua di personaggi che non si incontrano mai davvero, separati dalla ruggine del senso di colpa, dalle coincidenze respingenti, piagati dall’asfissia domestica dei sentimenti e delle mancate assunzione di responsabilità. A distaccarli è di volta in volta un vetro che impedisce un richiamo, una stretta di mano che salta perché le dita sono sporche, una porta chiusa dietro l’urlo furioso di un figlio tradito; il mondo esterno esprime ed esterna il disagio interno, l’impossibilità della congiunzione, che alla fine è possibile soltanto tra due persone ormai ferite e lontane, presente e passato, entrambi in modi diversi addormentati, i quali tuttavia, tramite tatto e odorato e il barlume di (quel che è stato) un amore trovano il modo di rientrare in comunicazione. Un incontro che è il tentativo di un inizio, o forse il coraggio di un addio, ma a cui si è giunti lasciandosi cumuli di macerie alle spalle.



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