Continua l’ottimo lavoro di importazione di Bao Publishing. Sebbene tutto il panorama fumettistico italiano stia vivendo anni di grande vivacità, l’editore milanese si è affermato come una realtà forte, un’azienda capace di pubblicare e distribuire opere nazionali ed internazionali di grande successo. Nel caso dell’opera di Jeff Jensen e Jonathan Case e pubblicata da Dark Horse, Il killer del Green River (a cui faremo riferimento, per motivi di cui discuteremo poco più avanti, con il titolo originale: Green River Killer: A True Detective Story) è stato premiato agli Eisner Award del 2012 nella categoria “Best reality-based work”.

La vicenda trattata dovrebbe essere nota: nel corso degli anni ’80 e ’90 numerose prostitute furono assassinate nell’area della contea di King, nei pressi di Seattle, da un misterioso killer. Le indagini per incastrarlo cominciarono nell’estate del 1982 con il ritrovamento dei cadaveri di cinque presso il fiume Green e durarono fino all’autunno del 2001 quando, grazie agli avanzamenti della ricerca scientifica, in particolar in quanto concerne l’estrazione del DNA, fu possibile arrestare uno dei principali sospetti degli omicidi: Gary Ridgway. Prima che questo traguardo fosse raggiunto la task force di agenti ed investigatori impegnati sul caso, nel corso di questi vent’anni, era stata ridotta ad un solo uomo: Tom Jensen, padre di Jeff. È a lui che l’autore ha deciso di dedicare il suo racconto che, lo diciamo sin da subito, è probabilmente una delle migliori detective fiction degli ultimi anni.

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Jensen adotta una prosa asciutta e concisa che racchiude in una sceneggiatura ad orologeria in cui, attraverso un uso attento del flashback, l’autore ha creato un meccanismo in cui ha potuto mostrare non solo l’aspetto investigativo della storia, ma anche le caratteristiche più umane, la quotidianità delle vite dei vari protagonisti, riuscendo a sottolineare, complice il tratto limpido di Case, l’inesorabile trascorrere del tempo e della vita.

Le trasformazioni dei volti, dei corpi, degli oggetti che circondano i personaggi costituiscono gli indizi del costo più alto pagato dagli uomini che hanno scelto di dare il loro meglio per assicurare un criminale alla giustizia: uno sforzo nobile il cui prezzo è la perdita delle proprie vite, l’annullamento di sé stessi per un’unica causa. Questo è probabilmente l’aspetto più interessante dell’opera: Jensen non si è limitato a descriverci come, attraverso il deus ex machina scientifico, si sia giunti all’arresto del killer, ma piuttosto a sottolinearne l’umanità e la banalità delle sue azioni. Non a caso il momento di spannung dell’opera è costituito da un colloquio tra Tom Jensen e Gary Rigdway in merito ai particolari di un omicidio. «Perché? Perché l’hai fatto?!» domanda il detective disperato. «Avevo bisogno di uccidere. Avevo solo bisogno di uccidere.» risponde freddamente il killer, provocando un crollo emotivo dell’investigatore che, interrompendo bruscamente l’interrogatorio, esce dalla stanza. A questo punto, Rigdway si rivolge ad altri poliziotti, chiedendogli «Cos’è successo? Ho detto qualcosa di sbagliato?».

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Negli ultimi quindici anni la cultura america ci ha per lo più consegnato, attraverso la letteratura popolare (ricordiamo che con il termine “letteratura” intendiamo indicare non solo le opere letterarie, ma anche quelle cinematografiche, la produzione seriale televisiva ed altre forme di racconto d’intrattenimento), un’immagine del killer come efferato e sottile omicida, catturabile solo attraverso il ritrovamento di prove ed indizi inafferrabili per l’impreciso essere umano – si pensi all’emblematico caso di Gil Grissom, primo protagonista della serie CSI, il cui campo di studi è l’entomologia.

In contrasto con essa ed attraverso la rappresentazione delle vicende, alle vite dei protagonisti della vicenda, Jensen sembra riproporre il concetto di banalità del male: Hannah Arendt elaborò questa riflessione durante il processo di Adolf Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 1963. Secondo la storica e filosofa, come si evince nell’omonimo testo nato dal resoconto sul processo ad Eichmann, il male potrebbe non essere una condizione radicale, piuttosto sarebbe l’assenza di radici, di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi, a far sì che persone spesso banali si trasformano in efferati assassini, torturatori, ecc. Una posizione che oggi siamo spesso portati a dimenticare in favore di un’esibizionismo ed un sensazionalismo mediatico ma che, ne Il killer del Green River, Jensen e Case inseriscono in un racconto intenso e coinvolgente.

 

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SCHEDA TECNICA
Titolo originale: Green River Killer: A True Detective Story
Testi: Jeff Jensen
Disegni: Jonathan Case
Traduzione a cura di: Leonardo Favia
Editore Italiano: Bao Publishing



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Dario Oropallo

Ho cominciato a leggere da bambino e, da allora, non ho mai smesso.

Anzi, sono diventato un appassionato anche di fumetti, videogiochi e cinema: tra i miei autori preferiti citerei M. Foucault, I. Calvino, S. Spielberg, T. Browning, Gipi, G. Delisle, M. Fior e S. Zizek.

Vivo a Napoli, studio filosofia e adoro scrivere. Inseguo il mio sogno: scrivere.

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