E son diciotto.
Frutto di una gloriosa collaborazione con Tom Morello (RATM), esce in questi giorni “High Hopes” , nuovo album in studio del Boss, quel Bruce Springsteen che infiamma il pubblico di tutto il mondo a suon di live incendiari, potenza rock, vocalità avvolgente e schitarrate che manco i ventenni.

Dichiara Morello: “Alcuni chitarristi sono dei jukebox virtuali, ma io non sono così. Ho ricevuto una lista di 50 canzoni e tre mesi prima che iniziasse il tour australiano, mi sono messo sotto e ho imparato quelle 50 canzoni. E’ stata una sfida e un’esperienza di apprendimento molto forte. Sono entrato davvero dentro al catalogo delle canzoni di Bruce e ho visto tutto il lavoro che c’è dentro la sua scrittura. Non sono un piccolo fan di Springsteen, sono un gigantesco fan di Bruce. E’ un grandissimo onore aver potuto collaborare in questo modo ed essere richiesto per suonare la chitarra in canzoni che non mi sarei mai sognato di suonare. Sono felice di farlo”.

Non ne dubitiamo, lo invidiamo e pare funzioni, visto il risultato.
A partire dalla copertina che tanto ricorda e omaggia Andy Warhol che nel 1963 realizzò il Doppio Elvis Presley, con il re del rock a puntarlo con due pistole: oggi il Boss ha invece le sue Fender Telecaster, che sembrano voler anticipare il contenuto del disco, ovvero una raccolta di cover altrui e old sessions della sua carriera.

Ma andiamo con ordine: spicca in primis la titletrack dell’album, già brano storico dei californiani ‘90s Havalinas e Tim Scott McConnell, in una riscrittura funky tra l’adrenalinica chitarra di Morello e un refrain glorioso tipicamente in linea con la E Street Band che da anni accompagna il nostro eroe. Si scivola velocemente verso la successiva Harry’s Place, di oltre 10 anni fa, che colpisce al cuore per il cantato sofferto e l’incedere oscuro e incessante al contempo, che porta agli oltre 7 minuti di American Skin (41 Shots), una ballata che vuole ricordare i fasti di Streets of Philadelphia, in un crescendo pop e rock al contempo, senza alcun dubbio esaltante.

Eccole le tipiche sonorità del Boss, che emergono vivaci nella cover degli australiani The Saints Just Like Fire Would, tra fiati che profumano di orchestra e galoppate alternative rock, mentre Down in the Hole richiama i fantasmi del passato di I’m on Fire, facendoli rivivere nel suono e nelle intenzioni, e Frankie Fell in Love con il controcanto di Steve Van Zandt sembra voler riportare al ricordo un passato glorioso, nella musica, on stage. La successiva The Wall penetra nel cuore raccontando dell’amico musicista vittima in Vietnam, mentre This Is Your Sword ci fa emozionare tra cori, strumenti che si compenetrano e quel sound così tipicamente riconducibile a Springsteen, forte di malinconie erranti e potenza di un rock cosmico che sembra fare all’amore con tutto il pubblico, generazione dopo generazione dal più piccolo al più anziano, tra racconti di vita e nostalgie di una memoria contemporanea seppur lontana nello spazio.

Così vibrano la ballata Hunter Of Invisible Game e quella The Ghost of Tom Joad ove il canto è concesso proprio a Morello. Chiude la saga la rivisitazione sofisticata e sentita dei The Suicide con la loro Dream Baby Dream. Tra sperimentazioni e vecchie glorie, basi riutilizzate, reinterpretazioni moderne e generazioni di musicisti che si susseguono, il Boss torna splendente e brillante come il miglior artigiano della storia del rock. Solo due anni dopo Wrecking Ball e pochi mesi dopo il termine del suo lungo tour planetario. Se non è eroismo questo …



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