Nella parte conclusiva dello speciale su quei giochi che ho voluto, forse troppo frettolosamente e ambiziosamente, chiamare “ambientali”, sottolineavo come questa “modalità” videoludica fosse una realtà in divenire, non completamente assestata e in continua evoluzione giorno dopo giorno.

Effettivamente i nuovi titoli che potremmo inserire in questa macro-categoria (cercando comunque di non creare divisioni rigide, anche tra generi) vanno aumentando con il tempo; un esempio per tutti è il recentissimo NaissanceE, di Limasse Five, di cui vorrei riportare almeno una frase, estrapolata dalla descrizione del titolo data dagli stessi autori: “L’avventura si svolge in una misteriosa struttura primitiva, e il gioco consiste soprattutto nell’esplorazione e nella percezione dell’atmosfera profonda e complessa di questo mondo fuori dal tempo”. Sarebbe logico, dunque, aspettarsi una panoramica sugli ultimi sviluppi di questa “tendenza”, per sottolinearne la novità. E invece ho deciso di fare un piccolo viaggio nel passato, per gettare le fondamenta di un “ritorno al futuro” più consapevole e preparato.

Non un andare indietro nel tempo perché la “storia” del medium sia da considerare snobisticamente più interessante della scena strettamente contemporanea, anzi, quanto per riscontrare come certi usi del videogioco fossero già stati ipotizzati e proposti più di quindici anni fa. E non solo per questo: nelle discussioni riguardanti i precedenti articoli di questa “serie”, mi è stato fatto notare come quelle modalità di interazione a cui ho voluto dedicare tempo e spazio potessero essere lette anche in quanto mere banalizzazioni delle possibilità del videogioco.

Ora, sulla semplificazione come potenziamento dei mezzi prettamente videoludici mi sono già espresso “ad abundantiam” nelle conclusioni (precarie) dei precedenti discorsi ma, qualora non fossi stato abbastanza convincente, lascio parlare direttamente i giochi in esame questa volta: perché Asmik Ace, casa di sviluppo di perle dimenticate di giochi arcade e comunque “di stampo classico”, spesso basate sull’abilità, avrebbe dovuto proporre un gioco in cui l’unica azione interattiva è lo spostamento, se non per precise volontà creative? Come vedremo, non stiamo parlando di banalizzazioni, ma di consapevoli semplificazioni, “riduzioni all’osso”, se volete.

LSD – Dream Emulator (Asmik Ace, 1998; PSX)

Nel 1998 Osamu Sato propone una rivoluzione videoludica passata praticamente inosservata, o quasi. Le meccaniche di gioco si spiegano in un paio di righe: nei panni di un’entità non meglio specificata, probabilmente nei nostri stessi panni, siamo chiamati a entrare in una serie potenzialmente infinita di “trip acidi”.

LSD Testo 4

Le uniche azioni concesse, proprio come nel Proteus di cui ho già parlato a tempo debito, sono il movimento e lo spostamento dello sguardo. Ci si muove all’interno di sogni inizialmente innocenti, che mano a mano si ricoprono di mistero, creando nel giocatore una sensazione di straniamento sconvolgente. Mentre i giorni passano, i sogni si compenetrano, si confondono, molti elementi ritornano con costanza, ma tutto viene trasfigurato, anche l’irreale, in una sorta di “degenerazione” trasmessa visivamente con la sovrapposizione e la sostituzione di texture, che vanno a rendere sempre più disturbanti anche le parti già note del mondo di gioco.

La particolarità è data anche dal fatto che scontrandosi letteralmente con i “pezzi” dello scenario è data la possibilità al giocatore di entrare in un’altra porzione di mondo, mondo che si popola di colori, forme e talvolta personaggi prima inesistenti. Il titolo in questione sa essere veramente ipnotico, sa creare una dipendenza (LSD, appunto) malata, sa trascinare il giocatore in un vortice di sensazioni estranee oltre che strane, con picchi di inusitata violenza visiva e uditiva: il sonoro svolge infatti un ruolo centrale nell’esperienza (raccomando l’uso delle cuffie), con una stratificazione di motivi, ritmi e temi già ascoltati in precedenza, creando un’analogia con la stratificazione visiva di cui ho riferito. Un gioco in cui essenzialmente si vaga, e in cui si prova anche una paura vera, genuina, trasmessa da un’atmosfera che sa terrorizzare, talvolta.

LSD - Dream Emulator

Sento di poter tranquillamente parlare di “Ambient Game”, in questo caso, visto che qui l’ambiente è tutto, l’ambiente si trasforma e diventa primo ed unico elemento di disturbo, di repulsione, ma anche di forzata e opprimente interazione. LSD – Dream Emulator propone un mondo in cui il giocatore è occhio che vede e seleziona cosa vedere, cosa escludere dal campo visivo e cosa “toccare con mano”. Un mondo in cui, quindici anni prima di The Stanley Parable, “la fine non è mai la fine”, ma soltanto una pausa provvisoria prima del successivo volo pindarico e lisergico in un territorio sconosciuto, in cui un salto nel vuoto o un’esecuzione capitale sono le uniche vie di fuga da una (ir)realtà altrimenti insostenibile.

Ohenro-San: Hosshin no Dojo – Pilgrimage (PIN Change, 2003; Gamecube)

Pilgrimage è un titolo che ha visto la luce solo nella terra del Sol Levante e, in generale, ha subito una sorta di involontaria “damnatio memoriae”. Dovendo sintetizzare potremmo classificarlo come un simulatore di pellegrinaggio religioso nel Giappone contemporaneo, in cui si “scontrano” due realtà: quella dei templi e dei giardini, e quella moderna della auto e delle strade asfaltate.

Pilgrimage Testo

Al giocatore è dato il compito di esplorare l’ambiente, camminando e studiando i punti di maggior interesse lungo il percorso. E la particolarità del gioco risiede in buona parte proprio nella rappresentazione del mondo, che è costituito solamente da fotografie, fotogrammi immobili. Subito ci si domanda come sia possibile “muoversi”, in un contesto del genere: semplicemente, l’idea del movimento è resa con ingrandimenti successivi delle varie fotografie e con dissolvenze delle immagini che lasciano affiorare lentamente i nuovi scenari.

Un esperimento, va detto, riuscitissimo e mai più ripetuto nella storia del medium. In pratica tutta l’azione si svolge all’interno di fotografie che creano un “continuum” geografico e spaziale grazie alla giustapposizione e ad alcune panoramiche a 360 gradi. Un po’ come fare un viaggio con Google Maps, in pratica. Ma lo spostamento è un’altra delle caratteristiche peculiari del titolo: vi sono due modi per camminare nel gioco, cioè alternando la pressione sui dorsali del pad oppure utilizzando il contapassi contenuto nella confezione del gioco e muovendosi “fisicamente” fuori dallo schermo, per simulare ancora meglio le lunghe camminate tra un luogo e l’altro, accompagnate semplicemente dal rumore della terra sotto i nostri piedi e da una colonna sonora religiosa che, causa ripetitività, risulta uno degli aspetti meno riusciti del gioco. Tra l’altro, mano a mano che l’esplorazione delle varie zone procede, viene data la possibilità al giocatore di pregare e accendere candele, solo per fare un esempio.

Pilgrimage Gamecube

Uno degli aspetti più interessanti della produzione è la scarsa attenzione posta sulla qualità “formale” dei singoli scatti, che puntano principalmente sulla quantità delle immagini piuttosto che sulla bellezza del fotogramma unico, e non cedono mai il “passo” al facile paesaggio sentimentale costruito a regola d’arte per emozionare, da cartolina, insomma. Si cammina, quindi, lungo strade dissestate, ritratte in bassa risoluzione e con uno stile che potremmo anche definire “lomografico”, votato all’immediatezza, lontano dal concetto di “bella immagine”, lontano da Photoshop.



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Gabriele Raimondi

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