Qualche anno fa, in tempi non sospetti, un amico mi rivelò un’intuizione di cui andava molto fiero: gli zombie stavano per rubare la scena ai vampiri. Lo ascoltai, ma ammetto che la cosa non mi convinse. Credevo che la ragione dello schiacciante successo dei vampiri fosse tanto ovvia quanto solida: da Carmilla a Edward Cullen, il legame tra erotismo e succhiasangue era sempre stato inscindibile.

Tuttora, seppur con diversi gradi di valore letterario, nei vampiri s’incarna un infinito desiderare, spesso deviante ma comunque capace di vincere la morte. E il suo fascino sopravvive persino oggi, o magari soprattutto oggi che la verità è che non gli piaci abbastanza. Quando si tratta dei defunti più sexy dell’immaginario collettivo, è la giovinezza la vera protagonista. Il vampiro è un narciso che nessuno specchio riesce a catturare, che non conosce la vecchiaia né il rimorso. In fondo non è altro che l’ombra perduta di Peter Pan, il suo lato oscuro e sensuale, la fine della sua innocenza.

Eppure, ironia della sorte, se gli spezzi il cuore lo uccidi. Perché i vampiri finiscono sempre per prendersi sul serio, e anche le brillanti trovate di True Blood non riescono a privarli della loro propensione al melodramma. Insomma, in fin dei conti il vampiro è un po’ Emo. Ed è qui il suo punto debole.

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Al contrario, l’invenzione di Romero, con la sua valenza di commento sociale, era tutta proiettata sull’orrore della massa piuttosto che sulle passioni private. Forse anche per questo mi aveva sempre lasciato un po’ fredda (è il caso di dirlo). Solo quando l’epidemia zombie ha avuto la sua più recente recrudescenza, ho iniziato ad apprezzare The Walking Dead..

Eppure, la spiegazione che mi sono data per questa debole simpatia aveva poco a che fare con gli zombie, e molto con le specifiche caratteristiche della serie. I poco sensuali defunti, in quel caso, erano solo un pretesto per tornare a un tòpos letterario tanto vetusto da essere un vero e proprio non-morto. Nella prima stagione del telefilm ci viene presentato un campione di umanità piuttosto vario ma rappresentativo della media che, costretto da un’epidemia, si ritrova a intraprendere un pellegrinaggio verso una potenziale salvezza e, nel contempo, ha modo di raccontare il proprio vissuto… Vi ricorda nulla? A me The Canterbury Tales, e naturalmente il Decameron. Però la mia potrebbe essere solo una deformazione professionale, e a forza di pensare alla letteratura potrei aver nobilitato un prodotto discutibile come la serie tratta dal pregevole fumetto.

Il fatto è che in seguito gli zombie mi hanno stupito di nuovo, perché pur volendo insistere nel considerarli un pretesto, ho continuato a trovare incarnazioni – o putrefazioni – degli stessi nei luoghi più impensati. Ho persino tradotto una saga chick-lit a tema zombie, in cui una ragazza parecchio incazzata salvava il proprio matrimonio con un videogiocatore apatico imparando a sfondare crani. E questo ci porta alla mia nuova chiave di lettura del fenomeno: il legame tra zombie e nerd.

Zombieland

La suddetta teoria ha preso definitivamente forma dopo aver visto il “volto” di Mark Zuckerberg terrorizzato dagli erranti in Welcome to Zombieland, e dopo aver sorriso davanti a Warm Bodies, con la sua gustosa canzonatura delle storie d’amore adolescenziali e la faccia da schiaffi del protagonista di Skins. A quel punto ho capito che anche gli zombie hanno una loro raison d’être, che i cugini sfigati dei vampiri non sono solo un elemento della scenografia, o di un sonno della ragione in cui risorgono defunti tòpoi letterari. No, qui si parla dell’incapacità di relazionarsi con una comunità ostile, decerebrata, pericolosa. In Welcome to Zombieland il sopravvissuto ci viene presentato come un nerd solitario che si aggira tra una folla di creature bavose mangia-cervelli: in pratica è una persona decentemente alfabetizzata in un sabato pomeriggio qualsiasi alla Romanina.

Mentre la novità, in Warm Bodies, è che persino tra gli zombie ci sono i diversi, i ragazzi poco popolari, che però riescono a conquistare la bionda più ambita a suon di vecchi dischi e teneri grugniti (nonché mangiando il cervello di un ex fidanzato per scoprire due o tre cose su di lei… ma questo è solo un dettaglio, tecnicamente non è neanche stalking).

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Tornava tutto, finché non ho capito che il mio viaggio tra i non-morti non era ancora alla fine. Più mi guardavo intorno, più mi accorgevo di aver sottovalutato l’epidemia. Le sue dimensioni sono tali che il punto non è più stato cosa ci trovassi io negli zombie. La verità è che tutti ci hanno trovato qualcosa: associare la faccenda solo all’ascesa mediatica dei nerd è riduttivo. Perché tra un rantolo e una scia di bava, un passo strascicato dopo l’altro, gli erranti stanno conquistando sempre più generi e forme di narrazione.

Ed eccomi qui, oggi, a confessare la mia cecità. Gli zombie sono onnivori, affamati e molto adattabili all’ambiente: è inevitabile che prima o poi riescano ad addentare ogni tipo di spettatore. E volendo credere a una delle tante idee attribuite a Darwin, se anche nell’immaginario c’è una lotta per la sopravvivenza è stato il più adatto a vincere, non il più forte.

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Quindi, ammetto di aver avuto torto: gli zombie hanno guadagnato terreno sui vampiri, l’ironia della putrescenza ha vinto sulla sensualità dell’adolescenza, e ormai gli erranti hanno avamposti in ogni anfratto del nostro immaginario. Sarei persino disposta a dar ragione a Frankie Hi-NRG: “Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi…”. Perché a questo punto mi sembra plausibile che quando non ci sarà più posto nel parcheggio di Ikea, i morti saranno pronti a camminare sulla Terra.



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Veronica La Peccerella

Passa la maggior parte del tempo a tradurre letteratura angloamericana, il resto a tradire la cultura "alta". È convinta che la vita sia altrove e spesso fa di tutto per raggiungerla. Quando torna, condivide un appartamento con una sagoma in cartone di Virginia Woolf e un'action figure di Ezio Auditore. Le piacciono la musica da hipster, i nonluoghi e i film d’animazione.

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