Quello che voglio fare parlando della (nuova) musica videoludica non è certo proporre un esaustivo excursus storico di tutte le esperienze degli ultimi anni: cercherò più che altro di portare alcuni esempi di come la musica all’interno dei videogiochi stia cambiando e conquistando nuove posizioni, nuovi ruoli. L’accompagnamento sonoro non è più, dunque, una semplice “colonna” che fa da sfondo alle peripezie di protagonisti vari ed eventuali, ma sta man mano acquisendo un volume proprio e alcune funzioni interessanti sia sul piano dell’esperienza “giocosa” sia, addirittura, a livello di creazione dei videogiochi stessi. Per alcune prove potremmo parlare (e si è già parlato) di musica dinamica, ovvero di una composizione che si adatta alla partita del giocatore di momento in momento, mutando sonorità, ritmi e tonalità a seconda delle situazioni di gioco: questa, come vedremo, è soltanto una delle molteplici possibilità che il medium ha di implementare l’arte musicale.

Braid Testo

Braid ( Jonathan Blow, 2008)

Approcciandosi in modo superficiale al gioco, la colonna sonora del titolo in questione potrebbe apparire come la più “tradizionale” tra quelle proposte in questo speciale, ma così facendo si cadrebbe in errore. Per capire bene il ruolo che la musica svolge realmente in Braid occorre descrivere brevemente le meccaniche di gioco: il protagonista dell’opera, un uomo in giacca e cravatta, si ritrova in un mondo “incantato” in cui ha la possibilità di riavvolgere il tempo a piacimento, senza limiti. Dietro questa idea vi è un concetto filosofico, il tentativo, in qualche modo, di dare una risposta a una domanda molto precisa: e se potessimo sempre tornare indietro una volta commesso un errore, per imparare dagli sbagli senza dover soffrire? Filosofia videoludica che, come in tutti i migliori casi del “genere”, è una filosofia creata sulle dinamiche, sui modi di interazione, non intesa come semplice “contenuto”.

Il gioco è essenzialmente un platform/puzzle (dalla difficoltà piuttosto elevata) in cui l’alter ego virtuale corre costantemente all’indietro, cercando di correggere i propri errori, magari anche la propria morte, in una incessante e proustiana “ricerca del tempo perduto”. E la cosa che più ci interessa in questa sede è che la colonna sonora, apparentemente semplice accompagnamento per i continui tentativi del protagonista, diventa in realtà elemento fisico all’interno del mondo di gioco. Colpo di genio: quando si decide di riavvolgere il tempo anche la musica si riavvolge. Ciò implica che le composizioni passino dall’essere sfondi emotivi ed enfatici degli stati d’animo (legate anche ai vari prologhi d’inizio livello) a veri e propri “pezzi” del puzzle (e il puzzle è tema ricorrente, in Braid) che individuano il senso profondo della ripetizione di gesti e azioni, diventando veicoli del significato non troppo nascosto dell’intera produzione. E la cosa si fa ancora più interessante se si ragiona sul fatto che la musica, in fondo, è ciò che Kivy chiama, in un saggio omonimo, The Fine Art of Repetition. La musica è anche e soprattutto ripetizione, e quale migliore strumento della musica, dunque, per comunicare il senso di un “eterno ritorno dell’uguale” alla ricerca della perfezione? La colonna sonora diviene così simbolo, grazie ad un piccolo accorgimento, del “messaggio” espresso dall’opera.

POP Testo 1

POP: Methodology Experiment One (Rob Lach, 2013)

Rovesciando il sistema wagneriano, Rob Lach decide di partire innanzi tutto dalla musica, dalla quale ricavare poi le situazioni (di gioco, nel nostro caso), piuttosto che il contrario. Da qui il titolo del progetto, che tira in causa la “metodologia” di approccio alla creazione videoludica, il modo in cui si sceglie di sviluppare. Ci troviamo dunque in presenza di un gioco che nasce letteralmente dalla propria colonna sonora. Ciò comporta probabilmente una difficoltà maggiore nei processi produttivi e nella comprensione del risultato da parte del giocatore. La musica, arte asemantica per eccellenza, riesce a produrre immagini e a renderle addirittura giocabili, alla faccia dei formalisti, che probabilmente davanti a un’espressione come “emotive properties of music” si arrabbierebbero non poco.

Di fatto il gioco è costituito da sei “frammenti” musicali, sei idee di game design (che sono praticamente minigiochi), intervallate da “confusi passaggi video”, secondo le parole dello stesso sviluppatore, nel rispetto di una creazione il più possibile immediata e rispondente all’idea originaria. Lach ha infatti evitato di rifinire eccessivamente le proprie “pillole di game design”, lasciandole grezze e forse, grazie a questa intuizione, più efficaci.

Il rapporto con la musica è interessante sotto più punti di vista: primo perché, in fase di ideazione, Lach ha sviluppato soltanto la prima idea “suscitata” dalla musica, per rispettarne le capacità emotive; secondo perché il risultato musicale è sorprendentemente legato alle immagini e ai vari modi di interazione che, tocca ricordarlo, cambiano per ciascuna delle sei parti del gioco. Il tutto crea un’esperienza straniante, fatta di una filosofia nascosta e difficilmente afferrabile al primo giro. Un’esperienza costruita seguendo il “flusso creativo” e che di conseguenza, sempre con le parole di Lach, risulta “disjointed”, “smembrata”, fatta a pezzi, così come il suo senso, in grado di affiorare solo a tratti, tra un’esplosione in volo di un aereo e un tramonto di coppoliana memoria, colorato del sangue di decine di vietnamiti senza volto “liberati” e finiti nel paradiso del punteggio numerico, mentre in terra impazza l’apocalisse.

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Diamond Trust of London (Jason Rohrer, 2012)

Il titolo in questione è interessante per svariati motivi, non ultimo il fatto di essere il primo gioco per Nintendo DS finanziato completamente grazie al crowdfunding. Oltre al nome del game designer dietro al progetto, ovvero Jason Rohrer, dal mio punto di vista una delle figure centrali laddove si voglia avviare un discorso sulle “nuove possibilità” del videogioco e sulle sue innovazioni, quello che mi interessa sottolineare è l’aspetto strettamente musicale della sua penultima creazione.

Da notare subito la collaborazione di cui si è avvalso lo sviluppatore statunitense, che ha lavorato a stretto contatto con il compositore Tom Bailey: questo elemento ci permette di comprendere quanto la componente musicale sia stata pensata e creata come parte non secondaria delle meccaniche di gioco. Conviene ora descrivere le dinamiche: il titolo è uno strategico in cui il giocatore deve aumentare il proprio guadagno e “attaccare” quello dell’avversario, raccogliendo e commerciando diamanti in Angola.

Delle tre opere proposte, questa è probabilmente la più vicina alla definizione di “musica dinamica”: le tracce composte da Bailey si mescolano e si alternano durante la partita, a seconda dell’andamento della stessa e delle decisioni intraprese da ambedue i giocatori coinvolti. Diventa così quasi impossibile riascoltare lo stesso brano, perché i componimenti sono costruiti in maniera non lineare, in modo da “assemblarsi” e combinarsi di volta in volta. La colonna sonora diviene dunque interattiva (anche se solo “indirettamente”) e indicativa delle situazioni di gioco: anche qui la musica viene “semantizzata” e si fa parte integrante dell’esperienza videoludica.



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Gabriele Raimondi

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