I nostri istinti sono il prodotto di millenni di evoluzione, sono stati codificati nel nostro DNA per permetterci di sopravvivere, riprodurci, continuare a vivere, generazione dopo generazione, in una catena lunghissima di vita e morte. C’era una volta un uomo della pietra che di fronte ad un gigantesco grizzly non ha provato terrore, e ha piuttosto provato ad accarezzarlo; la genia di quell’uomo non è andata molto lontana, a differenza di quella del suo amico che appena ha visto il grizzly è scappato velocissimo. La paura ci serve.

Ma oggi, per molti di noi, ci sono meno possibilità di avere paura. Siamo protetti da una società piuttosto ben organizzata, dove i momenti di puro pericolo son rari rispetto alla vita dei nostri antenati. Ma la paura rimane una parte importante del nostro DNA: non pochi “uomini moderni” si avventurano in safari e si cimentano in sport estremi per non dimenticare il senso del terrore. Ma la maggior parte di noi, più semplicemente, si rivolge all’horror. È una pillola di paura, un palliativo che ci permette di sfogare un istinto importante, tramite film, videogiochi, libri… per tenerci in esercizio e non dimenticare cosa significhi guardare in faccia la morte.

Fear

È a causa della nostra continua vicinanza alla morte che nessun mostro ha avuto più successo di zombi e vampiri. L’idea di “non morte” è terrificante e seducente, e se nel caso dei vampiri l’aspetto sexy ha molto peso, gli zombi danno sfogo solo alla parte più agghiacciante di quella realtà. L’idea che ci sia qualcosa dopo la morte, e che sia orribile, senza senso, senza direzione, fatta solo di compulsione e altra morte. L’idea che i nostri amati possano diventare qualcosa di completamente diverso da quello che sono, dimenticarsi di noi fino a volerci uccidere. Non a caso l’immagine più orribile nell’immaginario zombi e quella dei bambini morti viventi. C’è qualcosa che si rompe nella nostra testa quando vediamo un simbolo dell’innocenza diventare pericoloso e orribile.

Ma le invasioni zombie vanno oltre la famiglia e l’individuo. Sono storie di masse di corpi dedicati alla violenza, come unico obiettivo hanno la distruzione. E negli ultimi anni, dopo gli attacchi alle torri gemelle e le successive guerre, e il trambusto creato dalla distruzione economica, la vita per molti è sempre più confusa. Nonostante nella storia dell’uomo non sia mai esistito un momento in cui così tante persone hanno avuto un livello così alto di benessere, molti di noi provano inquietudine, disagio, paura, e spesso non è possibile darle una faccia precisa. Così sfidare masse di morti viventi è un modo per dare vita alle nostre paure, dare loro forma, creare un momento di chiarezza, per quanto possa essere terrificante.

Nel suo ultimo film, Only Lovers Left Alive, Jim Jarmush racconta la storia d’amore tra due vampiri centenari, chiamati Adam ed Eve, arrivati ai giorni nostri dopo aver influenzato la storia dell’uomo ispirando alcune delle più grandi opere della storia, da Shakespeare ad Einstein passando per Vivaldi e Marlowe. I vampiri vivono in isolamento, e quando parlano degli esseri umani li chiamano “zombi”, con disprezzo. Vedono nell’inettitudine dell’uomo comune, e nel modo in cui spreca il potenziale del pianeta terra un enorme crimine e uno spreco della loro vita. È una visione in bilico tra lo snobismo e la parodia, ma colpisce un punto comune a tutti, non solo ad artisti ed intellettuali. Spesso sembra il mondo ci venga contro, che tutti siano contro di noi, che ci vogliano prendere per il collo e mangiare il nostro cervello.

DR

Le storie di zombi ci permettono di dare vita a quella fantasia; e i videogiochi sul tema ci permettono di affrontarla. In Dead Rising dobbiamo rappresentare l’umanità in mezzo a un’invasione di morti viventi, dobbiamo salvare noi stessi e altri, pochi sopravvissuti rimasti umani di fronte ad una minaccia chiara, definita, orribile. E l’orrore diventa ancora più violento quando scopriamo che alcuni umani sono più fuori di testa degli zombi, più pericolosi, più voraci. Abbiamo solo tre giorni per sopravvivere: il tempo passa a prescindere dal successo delle nostre missioni. Siamo giornalisti, e a volte possiamo scegliere di documentare l’attacco ad un uomo invece di intervenire e salvarlo, per rischiare meno e ottenere un risultato immediato, così da mettere alla prova la nostra fibra morale nei momenti di tensione. E il limite di tempo dà un senso di tensione che rispecchia quello del nostro quotidiano, la sensazione che le nostre azioni abbiamo conseguenze impossibili da cancellare. È la stessa sensazione che ci dà una partita a left 4 dead, un’esperienza ogni volta unica ed irripetibile.

Un tempo era facile dare per scontato che il protagonista di una storia fosse invincibile. C’è un patto non scritto tra narratori e spettatori che ci dice che i personaggi a cui teniamo di più siano al sicuro, a prescindere dal livello di pericolo a cui sono sottoposti. Ma negli ultimi anni questo patto è stato rotto sempre più spesso. È il motivo dietro al successo di Game of Thrones e The Walking Dead. E il gioco tratto dalla serie di Robert Kirkman è uno degli esempi migliori di questa tendenza. Il giocatore deve compiere decine di scelte che spesso decidono della vita o della morte di personaggi fondamentali, che tutto ad un tratto vengono uccisi, in un attimo. È scioccante, ma anche catartico, perché sotto sotto sappiamo che quella è una possibilità con cui conviviamo in ogni momento. Gli zombi ci ricordano che anche scelte così terribili possono essere solo un altro inizio: dare vita a qualcosa di ancora più orribile della morte, farci pensare ad un baratro ancora più profondo di quello che possiamo vedere ad occhio nudo. E dopo averlo visualizzato possiamo affrontare i nostri piccoli orrori con meno paura.



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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