«Il mio amico armadillo immaginario aiuterà a dare un volto ai miei pensieri e dilemmi»

È con queste parole che, in una storiella apparsa sulla compianta rivista Canemucco e poi ripubblicata nel Novembre 2011 sul neonato blog, Michele Rech, al secolo Zerocalcare, introduce la figura dell’armadillo. Una presentazione esplicita che preannuncia l’anima luciferina, quei sentimenti di egoismo e timore che l’armadillo racchiude – come d’altronde lo stesso Rech ammetterà apertamente in uno dei post in cui la corazza dell’animale è adoperata per difendersi dalle proteste dei lettori, inviperiti per l’annuncio di una diminuzione degli aggiornamenti del blog. Per questo è con un po’ di stupore che ci si avvicina a Dimentica il mio nome, ultima opera dell’autore romano pubblicata da Bao Publishing. Un romanzo che è senza dubbio un ulteriore passo in avanti nella carriera dell’autore romano che, in un unico testo, ha voluto confrontarsi con la paura più grande e raccontare la genesi della figura dell’armadillo – un doppio svelamento i cui risvolti narrativi e, soprattutto, di riflessione sono numerosi ed interessanti. Già il titolo del primo capitolo ci introduce in una dimensione di atemporalità che sembra contrapporsi ai ritmi consuetudinari dettati dal blog: Ogni maledetto lunedì ci introduce delicatamente ad una dimensione non estranea alla poetica di Zerocalcare – il rapporto con i ricordi passati è una costante della sua produzione fumettistica ed è proprio nell’infanzia che va a collocarsi la fonte delle contaminazioni di icone e figure pop con cui l’autore reinterpreta e rappresenta idiosincrasie, stili di vita, ecc. contemporanei.

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La dimensione temporale è però confusa, il presente ed il passato si alternano con grande rapidità. La causa di questa lettura a singhiozzo è data dall’evento da cui muove l’intera vicenda: la morte dell’amata nonna materna, figura “anormale” per il contesto di periferia italiana – quindi una periferia di periferia – e che assume contorni ancor più affascinanti grazie al mezzo del ricordo e del racconto famigliare. L’autore ha cercato e trovato un’opportuna mediazione tra realtà, famigliarità e fantasia che gli consente di superare gli elementi personali – un lutto è sempre una questione “privata” e lo è ancora di più in un mondo in cui, citando Max Scheler, assistiamo ad un’applicazione estensiva dello «stratagemma di diversione», cioè una riduzione della morte a deplorevole catastrofe (non a caso in una delle scene più note de I Griffin di McFarlane Peter commenta la sua combustione spontanea, quindi la sua morte, con serena accondiscendenza: «Oh, fa niente. Mi ero stancato di vivere») – per poter far emergere l’aspetto più patetico dell’elaborazione del lutto.

Un’elaborazione che deve forzatamente confrontarsi con gli altri componenti della famiglia e, in particolare, con la figura materna. Emersa con forza più o meno maggiore, la principale figura femminile del romanzo – alla pari con la propria madre – assume il duplice ruolo di persona da consolare ed aiutare, in una sorta di passaggio classico in cui non le colpe, ma il dolore dei genitori è assunto dai figli, ed al contempo di Virgilio, guida nel percorso di scoperta che conduce il giovane al di fuori dalla caverna di sicurezza in cui egli è cresciuto ed alla quale può tornare nel caso di sconfitta («Questa è casa mia! Per sempre! Se ‘sta cazzata dei fumetti va male io torno a vivere qua, che ti credi?», ricorda di aver esclamato lo stesso ZeroCalcare durante una discussione), mostrandogli come egli abbia solo rimirato la luce del mondo esterno – l’esplorazione non è ancora cominciata e, nonostante le aspettative del giovane, il suo ego non può che uscirne ridimensionato – come dimostrato dalla scomparsa, nelle pagine conclusive dell’opera, del principale frutto dell’insicurezza e dell’egoismo narcisista del protagonista.
Ad accompagnare questi cambiamenti, quest’apocalisse di sé, è l’ultima evoluzione del tratto del disegnatore: al dinamismo di Dodici succede una predominanza di contrasti tra grigi e neri in cui si incastona un arancio a dir poco scintillante e perturbante, nel consueto universo senza colori delle storie dell’autore romano. Ma ancor di più emergono con forza e prepotenza dei tratti scomposti, tremanti, persino lattiginosi che donano una dimensione espressionista della paura che può divenire panico e terrore: riecheggiano in essa Go Nagai, Egon Schiele e persino alcuni elementi delle pinturas negras di Goya.

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Tenebre che l’esplorazione di Zerocalcare dissipa, ricostruendo un passato composto di storie, ricordi, strappi – uno su tutti e comune alla maggioranza dei nati tra gli anni ’80 e ’90: l’esser nipoti della generazione che affrontò e sopravvisse durante l’adolescenza il secondo conflitto mondiale. In questo passato e nel suo riallacciarsi al presente è insito non solo il primo passo oltre la soglia della caverna, ma anche un piano di lettura più profondo dell’opera che, ancora una volta, emerge prepotentemente nelle pagine dell’epilogo, in cui il pauroso mondo presente ammira, leggermente turbato, l’incatenato mondo antico. Un mondo antico che, anche se perduto, non può essere controllato: per questo è impossibile dargli un nome.

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SCHEDA TECNICA
Titolo:
Dimentica il mio nome
Autori: Zerocalcare (Michele Rech)
Editrice:
Bao Publishing
Pagine:
240
Prezzo:
18 euro
ISBN: 
978-88-6543-254-9



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Dario Oropallo

Ho cominciato a leggere da bambino e, da allora, non ho mai smesso.

Anzi, sono diventato un appassionato anche di fumetti, videogiochi e cinema: tra i miei autori preferiti citerei M. Foucault, I. Calvino, S. Spielberg, T. Browning, Gipi, G. Delisle, M. Fior e S. Zizek.

Vivo a Napoli, studio filosofia e adoro scrivere. Inseguo il mio sogno: scrivere.

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