Che Richard Linklater fosse un autore imprescindibilmente aggrappato all’indagine del tempo, del suo scorrere addosso all’essere umano plasmandolo, levigandolo, consumandolo lentamente, era chiaro anche soltanto dalla visione limpida e tripartita della storia d’amore di Jessie e Celine. Prima dell’alba, Prima del tramonto, Prima di mezzanotte: sempre prima che qualcosa (ci) succeda, che (ci) scivoli via, che un evento di routine naturale e dolorosamente poetico ci strappi per sempre l’illusione di un attimo. L’illusione dell’amore, della permanenza identitaria, infine della solidità esistenzial-sentimentale; tutto destinato a sciogliersi tra le luci di un giorno che inizia, che finisce, che ricomincia.

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Il suo discorso, Linklater lo porta a compimento – e, possiamo dire col senno di poi, a un nuovo principio – con un’opera concettualmente e letteralmente monstre covata da ben 12 anni, serbata a lungo nello srolotolarsi delle stagioni, girata però nel totale di poco più di un mese (!), accatastando qualche giorno rubandolo anno dopo anno. Un’intuizione geniale, rischiosissima, non soltanto un esperimento (anche sul fronte attoriale), una sperimentazione di linguaggio e concezione cinematografica, ma anche un’intenzione di porsi come ampio spettro del cambiamento radicale di un paese, specchio delle trasformazioni socio-culturali di un territorio, ma anche sonda della sua immutabilità.

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Il tutto attraverso gli occhi nitidi e spesso silenti del piccolo Ellar Coltrane, scelto ad appena otto anni per incarnare nei successivi 12 un percorso vitale, un progetto, un passato continuo e un presente ininterrotto. Boyhood vive miracolosamente di un’immediatezza naturalistica, dell’impressione di una realtà hic et nunc, percepibile sulla pelle delle nostre stesse esperienze; vive di gesti casuali, di quotidianità fluida e risaputa, di un panorama umano realistico, di scene che si susseguono con l’unico filo conduttore del tempo volatile, catturato a spizzichi e bocconi, vissuto con inconsapevolezza. Cene, sguardi di sfuggita, pianti silenziosi, tagli di capelli indesiderati, un patrigno dittatoriale che è, da solo, la perfetta incorporazione dell’era Bush, una sala da bowling che non sembra più la stessa, una coppia tutta casa, chiesa & armi da fuoco (ritratto spontaneo e realisticissimo dell’America stessa); un viaggio indefinito e sorpreso nel momento stesso del suo compiersi.

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Non è la convenzionalità della piana (non) narrazione, su cui bisogna soffermarsi guardando un lavoro come Boyhood: è la verità emozionale e, appunto, temporale di cui riesce a farsi portatore senza sforzo, con leggerezza e incanto e malinconia, trasportati da un bambino che per tre quarti di film è silenzioso, riflessivo, immedesimabile da qualsiasi spettatore/trice, e poi all’improvviso diventa qualcun altro, la sua identità si definisce in maniera decisa, quasi dura ed esplosiva sullo schermo, ed ecco, dobbiamo abbandonarlo, separarci da lui, perché altro da noi. Un po’ come vedersi al di fuori da noi stessi, è l’improvvisa concretizzazione del nostro Io. Ecco perché, davvero, alla fine, “non sei tu che cogli l’attimo ma è l’attimo che coglie te”: è proprio quel che accade guardando questo film.



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