Diciamolo subito, tanto per sgombrare il campo da qualsiasi perplessità: Hunger Games è la saga per ragazzi (e soprattutto ragazze) più intelligente e interessante del momento – e anche di alcuni anni a questa parte. Il terzo capitolo, in questo senso, lima le ultime incertezze (se mai ve ne sono state), scolpisce con una nettezza definitiva le tematiche al cuore nevralgico del racconto, e pone le basi finali per un discorso che di young adult ha sempre meno (di adult, come giusto all’avvicinarsi del termine del percorso di crescita della protagonista, ce n’è molto).

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Non ci sono vampiri e licantropi in lotta per amore, in Hunger Games – Il canto della rivolta, né semidei che bisticciano o creature tatuate cacciatrici di ombre: l’80% del film (leggermente troppo lungo, ma è un peccato veniale), infatti, è ambientato tra mura sotterranee grigie e asfissianti, una centrale della ribellione ex distretto raso al suolo; i problemi principali non sono i patemi di cuore o i poteri magici, ma la sopravvivenza dopo un trauma violento, il prezzo di una rivoluzione politica, il senso dell’identità personale frammentato da un’ideologia che per vincere deve usare i mezzi subliminali del Sistema contro cui è in lotta.

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La saga, accantonati i giochi a perdere dell’arena che funzionavano come un appassionante e tesissimo videogame umano, si getta nel conflitto e riflette sulla manipolazione dei media, sulla creazione e distruzione di simbologie commercializzate, sull’immagine catalizzatrice di pensiero che si fa sponsor: la lotta, per ora, è tutta virtuale, e ad eccezione di una sequenza da vero film di guerra (il bombardamento dell’ospedale) e qualche momento di pacifica serenità illusoria, per Katniss e i suoi alleati non c’è più scampo, e l’orrore della guerra mai così priva di spettacolarizzazione e fascino ambiguo in una saga teen, si avvicina inesorabile colpendo l’intoccabile.

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Perché Katniss (una Lawrence dalle centomila sfumature, miracolosa), che dell’eroina ancora non vorrebbe vestire i panni, atipica e recalcitrante, dura e ferita, si trova a fare i conti con sentimenti contrastanti (ma mai ad uso e consumo del fangirlaggio delle adolescenti con l’ormonella) che alla fine si addensano sull’unica luce di purezza, l’amico Peeta, che da sempre la ama incondizionatamente.

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Ma è la guerra, bellezza, e persino coloro che trasmettono incontaminata fiducia sono destinati a soccombere e venirne inquinati: per questo il finale, anche per un non appassionato di Hunger Games, è così respingente, crudo e inaspettato. Perchè il film di Francis Lawrence tratto dall’ultimo coraggioso romanzo di Suzanne Collins, non illude e non edulcora, strappa alla fine l’ultimo brandello di conforto portandoci a un punto di non ritorno. Lasciando presagire un quarto atto di reale dolore. Alla faccia dello young adult.



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