1999: un regista semiesordiente, Brad Bird, sbalordisce il mondo scrivendo (ispirandosi ad un racconto di Ted Hughes del 1968) e dirigendo per Warner Bros un film tanto bello quanto sfortunato, Il gigante di ferro. La pellicola al botteghino non incassa un granchè, ma nel corso degli anni si fa amare da moltissimi spettatori. Nel mentre, la carriera di Bird decolla: Gli Incredibili e Ratatouille lo portano all’Oscar e con Mission: Impossible – Protocollo fantasma il regista dimostra di saperci fare anche con attori in carne ed ossa.

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Fastforward al 2014. Big Hero 6, 54º “Classico” Disney e primo film basato su un franchise Marvel ad essere interamente prodotto dai Walt Disney Animation Studios, riesce nell’intento di commuovere, stupire ed esaltare lo spettatore, proprio come fece il classico di Bird tre lustri orsono. Forse quest’opera non raggiunge le vette del misconosciuto predecessore, ma i tratti in comune non mancano.

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Big Hero 6 è un’opera importante nella storia della Disney, che continua ad alternare film molto classici nella forma e nel contenuto (Rapunzel, Frozen) ad altri, più attenti alle dinamiche del presente e al ruolo che la tecnologia occupa nelle nostre vite (Ralph Spaccatutto). La contaminazione tra anime e tradizione disneyana non si ferma all’ideazione dello scenario in cui si muovono i personaggi (l’immaginaria e benevolmente bladerunneriana San Fransokyo) e ai loro nomi (Hiro Hamada, GoGo Tomago) ma anche alla messa in scena e alla narrazione, più vicina ad una comedy robotica nipponica che a quelle classiche americane (Transformers & co.).

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A suo modo, Big Hero 6 osa. Oggi veder declinato il tema della morte, della vendetta (duplice!) e del sacrificio in un film Disney non fa più così notizia, ma è ammirevole constatare come lo script di Don Hall e Jordan Roberts cerchi, per quanto possibile e concesso dai canoni dell’animazione americana, di conferire spessore a personaggi e situazioni. Geniale, nella forma e nel contenuto, è poi Baymax, il tondeggiante robot che Hiro trasforma in una (a volte inconsapevole) macchina da guerra invincibile. Design a parte, Baymax è uno dei chara più convincenti e amabili degli ultimi anni.

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Eticamente ultracorretto (il team di geek combattenti è a prova di Sarkeesian , visto che ci sono due donne, un bianco e un nero), il film ammicca dichiaratamente all’altra anima della major, quella marvelliana e superoistica: la regia di Don Hall e Chris Williams regala sequenze action assolutamente strabilianti sia dal punto di vista tecnico che coreografico e propone un modello in cui la nerd-culture è ampiamente sdoganata e accettabile.

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Peccato solo che tra l’intelligente incipit ed i fuochi d’artificio finali esista una zona grigia, buona non ottima, che inficia un po’ il risultato finale, allontanandolo dall’eccellenza che perdura per almeno 60 dei 90 minuti complessivi. Un bell’esperimento quindi, che conferma quanto Disney oggi riesca a muoversi con agilità nel settore a lei più congeniale, quello dell’intrattenimento domestico e realizzare prodotti godibili, divertenti e, anno dopo anno, sempre più densi sotto il profilo dei contenuti.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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2 Comments

  1. dovessi entrare nel dettaglio della zona grigia senza fare spoiler? son curioso adesso.

    1. Molto semplicemente per una mezz’oretta le idee scarseggiano e il ritmo rallenta un po’. Nulla di grave, ma tanto basta per passare da “ottimo” a “molto buono”.

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