The Kingdom of Dreams and Madness è un documentario, girato da Mami Sunada due anni fa, prima dell’uscita nelle sale giapponesi di Si alza il vento e The Tale of the Princess Kaguya, che osa l’inosabile: raccontare la vita quotidiana di Hayao Miyazaki e di coloro che lavorano presso lo Studio di animazione giapponese più famoso e celebrato di sempre.

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Lo ammetto: fino a qualche anno fa, più o meno fino a quando Miyazaki vinse l’Orso d’oro a Berlino avrei venduto familiari e organi pur di vedere un’opera come questa. La mia storia con Ghibli inizia, inconsapevolmente, con una visione mistica e leggendaria di Nausicaa sulle reti Rai trent’anni fa e continua per almeno tre lustri tra affannose ricerche di materiale (siamo nell’epoca degli studi universitari, delle videocassette e delle estenuanti peregrinazioni assieme ad un amico presso l’inquietantissimo negozio Yamato Video in zona Porta Venezia a Milano, perennemente popolato da personaggi bizzarri e stravaganti…) apparentemente introvabile e costosissimo. Oggi l’intera filmografia dello Studio è disponibile con un click su Amazon (o Torrent, a seconda del proprio livello di onestà) e gran parte della “magia”, tipica di ogni prodotto proveniente da un Giappone oggi non più lontano o irraggiungibile, quella carica di attesa e aspettative, si è un po’ persa.

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Al termine della visione del documentario non ho scoperto nulla che non sapessi già, ma ho avuto la conferma di alcune intuizioni che si erano andate corroborando nel corso degli anni. La più eclatante è quella relativa allo status di Goro Miyazaki, che, come temevo, deve aver vissuto una vita piuttosto difficile: a lui sono dedicati pochi minuti, ma più che sufficienti per comprendere la noia e la sostanziale indifferenza che il regista prova nei confronti dell’animazione, di Ghibli e pure del Padre. Hayao Miyazaki appare come un impiegato un po’ più importante degli altri: amato, venerato sì, ma molto meno astratto, etereo ed impalpabile di quanto appare all’ occhio occidentale. Quel ruolo, quello di convitato di pietra, è semmai ascrivibile a Takahata, personaggio misterioso, mistico e, appunto, invisibile. Uffici amabilmente disordinati, pieni di colori, pastelli, gatti, piante, per me, per l’idea che mi ero fatto nel corso degli anni, non sono epifanie: è come se avessi visitato Ghibli ben prima che il documentario venisse realizzato, è un luogo molto analogico e poco digitale, dove si lavora tanto e bene.

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Talvolta mi tocca leggere, specie da quelle, uhm, “firme” che Miyazaki l’hanno scoperto solo dopo i primi riconoscimenti internazionali, assurde equiparazioni tra Ghibli e Disney, che in verità hanno in comune forse solo il produrre film animati. The Kingdom of Dreams and Madness dimostra piuttosto quanto poco “organizzato” sia lo Studio, un po’ a tutti i livelli. Una realtà quasi amatoriale, dal punto di vista prettamente imprenditoriale e commerciale, ben lontana dall’implacabile e certosina programmazione che ha trasformato Disney, specie dopo le acquisizioni di Marvel e Lucas, nella società di intrattenimento più importante del mondo. Mondi diversi, storie diverse, culture diverse: è ed forse un segno dei tempi che, mentre una società sia prossima a vivere il suo anno più redditizio (Disney, ovviamente, grazie alla combo Avengers+Guerre Stellari+doppio Pixar), l’altra rischi di sparire per sempre o, quanto meno, di dover sopportare profondi e radicali mutamenti al proprio interno. Purtroppo per Ghibli, il duplice flop di Kaguya prima e di Marnie dopo (entrambi avvenuti dopo la fine delle riprese del documentario, che si chiude con l’annuncio del ritiro di Miyazaki) ha messo a repentaglio le sorti dello Studio: solo Hideaki Anno, che riceve quasi “ufficialmente” dallo stesso Maestro l’investitura a erede artistico designato, potrebbe salvare Ghibli. Come e se accadrà, solo il tempo potrà dircelo.

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The Kingdom of Dreams and Madness è un’opera essenziale non solo per gli appassionati dello Studio Ghibli e dell’animazione in generale (o del cinema tutto, dai) ma un doveroso omaggio ad un gruppo di artisti che ci hanno accompagnato dall’infanzia all’età adulta con le loro opere, la loro creatività ed il loro genio. Proprio per questo, ai titoli di coda, ho provato un po’ di malinconia: mi piacerebbe poter tornare a quel lontano pomeriggio durante il quale le matite di Miyazaki e la musica di Hisaishi colpirono per la prima volta i miei occhi ed il mio cuore. Purtroppo però, non posso fare altro che limitarmi a ringraziarli per avermi fatto vivere momenti indimenticabili e chiedermi, senza sapermi dare una risposta, chi potrebbe prendere da loro il testimone…



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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