Si presenta problematico parlare dell’ultimo film di uno degli autori preferiti dalla sottoscritta (e da innumerevoli cinefili) nonché tra i più importanti cineasti viventi, in grado di regalare plurimi capolavori ardenti e indissolubili (da Gli spietati a Mystic River, da Million Dollar Baby a I ponti di Madison County fino a Gran Torino). Problematico perché per la prima volta, nella filmografia del grande Eastwood, pare che l’intenzione ideologica abbia, quasi interamente, soppiantato il film. Il film come oggetto attivo, vivo, dinamico, non chiuso in una gabbia – che è quella in cui invece viene compresso dall’esecrabile sceneggiatura di Jason Hall.

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Clint costruisce momenti millimetricamente evocativi e significanti, dalla tv spenta che si accende dei suoni della dipendenza di Kyle, all’ambiguità della tensione verso l’omicidio che sottende un impulso inquietante di violenza generatosi fin dall’infanzia, ai fremiti di umanità che negli occhi del protagonista premono per emergere davanti a un altro bambino con un’arma in mano; una parabola sull’orrore della guerra, sul veleno inestirpabile che essa getta nel sangue, American Sniper, lo sarebbe con efficacia e limpidezza, non fosse così appesantito dall’orgoglio a stelle e a strisce e da un manicheismo (buoni da una parte, cattivi indiscussi dall’altra) che non va al di là di quei colori, nel suo presentare un’unica faccia di una medaglia incrinata e insanguinata.

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Perché, alla fine, American Sniper è soprattutto l’apologia compartecipe di un cecchino ciecamente patriottico (con celebrazione eroica sul finale), tagliata con l’accetta, con un campo di riflessione e ragionamento stretti quanto il mirino con cui Kyle uccide indiscriminatamente guadagnandosi così l’epiteto di leggenda. Eppure è firmato, paradossalmente, da un regista che aveva chiaroscurato le ragioni e le parti di un conflitto con un dittico mirabile (Flags of our Fathers/Letters from Iwo Jima) che qui cade nella piatta patriottica commemorazione senza se e senza ma accettando uno script che abbozza la figura piatta di un superuomo tutto d’un pezzo educato a suon di Bibbia e frusta ad essere il cane pastore, per le pecore e contro i lupi, entrambi altrettanto di cartapesta, con i nemici a fare da semplici birilli da buttar giù – vedasi l’eclatante esempio della sua nemesi Mustafa, sagoma unicamente presente per essere odiata con la sola motivazione, presentata senza un accenno di messa in discussione, dell’essere dalla parte del torto.

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Per quanto le sopraccitate impennate registiche donino piccole sfumature d’umanità all’uomo americano, non ne restano per gli altri, per alcuna controparte. Ma seppure così meccanico e manicheo (o forse proprio per questo), American Sniper è allo stesso tempo così efficace e ben confezionato per un pubblico generalista da ottenere incassi record in America (il miglior weekend di gennaio nella storia del cinema americano) e in Italia (il miglior risultato, ad oggi, per un film di Eastwood). L’americanismo unilaterale e senza diritto di replica, insomma, è di nuovo in auge (se n’era mai andato?), e lo è con un prodotto ottimamente impacchettato e diretto, però così di parte, così schierato, così mancante di ragionamento e pensiero critico (non che quello di Clint si adegui e svanisca totalmente in quello di Kyle ma, di certo, non gli dispiace) da lasciare chi si reca al cinema desiderando di azionare il cervello senza venir imboccato – per non parlare dei fan di un autore così grande – piuttosto sgomento.



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1 Comment

  1. Non sono d’accordo. Il diavolo sta nei dettagli e anche Clint. American Sniper ci presenta, come hai scritto bene, un “superuomo tutto d’un pezzo educato a suon di Bibbia e frusta ad essere il cane pastore, per le pecore e contro i lupi, entrambi altrettanto di cartapesta” ma ci dà tutti gli elementi, a partire proprio dall’educazione, impartita con la cinghia, a essere un cane da pastore, per comprendere come Kyle sia un unicum, diverso rispetto ai suoi compagni d’arme, e che se da una parte incarna valori come il patriottismo, il coraggio e il senso di sacrificio per il Paese, dall’altra è un esaltato che procede spinto da un fanatismo costruito a giustificazione di una vita niente affatto realizzata.

    Kyle, prima di decidere di diventare un seal, è un “cowboy” sfigato e manesco che conduce una vita che crede da Uomo Texano con le maiuscole ma che è solo da macho senza prospettive serie. Il fatto che il momento in cui decide di arruolarsi coincida col momento più basso della sua vita da macho rende, secondo me, chiaro allo spettatore che anche se Kyle, a parole, dà a intendere che vuole arruolarsi per difendere il Paese (e portare avanti il suo ruolo di cane pastore) in realtà pesa molto il sottrarsi a una vita che non gli sta dando le soddisfazioni che cerca.

    Quindi Kyle diventa un seal che non cerca nella guerra solo l’occasione di servire il Paese, ma cerca riscatto, cerca soddisfazione personale e, sì, serve anche il Paese ma checché ne pensi non è quella la sua principale preoccupazione, e lo svilupparsi del rapporto con la moglie e coi compagni d’arme rende sempre più chiaro che mentre tutti intorno a lui sono coscienti della realtà atroce della guerra che, per quanto vi ci siano ficcati dentro volontariamente, sperano siano solo una fase della loro vita, lui ci si muove con un fanatismo cieco e distruttivo.

    Nello scontro a distanza con Mustafà la sceneggiatura ha voluto dare a Kyle una missione e potremmo credere che lui si senta pronto a tornare indietro solo a missione finita, ma (ancora i dettagli) la decisione di smettere matura in un contesto in cui ormai la realtà della guerra gli sta diventando evidente nonostante i suoi occhiali color “Dio, Patria e Famiglia” e sta arrivando a comprendere che le cose non sono così “mache” come se le immaginava e che la sua realizzazione può anche realizzarsi altrove, a fare qualcosa di meno macho ma ugualmente importante, come curarsi della famiglia e del prossimo senza dover più uccidere o esercitare la forza bruta.

    Alla fine è un film, secondo me, che, sì, spinge sul patriottismo da una parte, ma dall’altra conserva quell’equilibrio tipico di Clint per cui ritengo proprio impossibile sostenere che presenti una visione manichea e piatta, tanto del personaggio quanto della guerra in cui questo è coinvolto :)

    My 5 cents

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