P.T Anderson sembra già averci dato tutto, e in meno di vent’anni. Eppure, guardando Vizio di Forma è facile pensare di trovarsi innanzi a un’opera brutta. Non brutta nel senso espressivo del termine, chè è da Magnolia (classe 1997), a voler essere il più riduttivi possibile, che in quanto a linguaggio visivo Anderson eccede in perfezionismo. Brutta perché impenetrabile e anti-strutturale: da una solidità di tesi, ha genesi una totale vaghezza morfologica.

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Il detonatore dei fatti è, ancora una volta, di tipo affettivo: Shasta, conturbante ex fidanzata, chiede aiuto al detective “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix), protagonista assoluto della narrazione, che si trova così a dover indagare sulla scomparsa di un imprenditore edile. Questa premessa dà vita ad un microcosmo allucinogeno, con navi fantasma che smerciano eroina, agenti federali poco propensi alla moralità, un poliziotti-ombra, musicisti invischiati in operazioni segrete per conto del governo, cliniche dentistiche che ricompongono i denti sbriciolati dalle sostanze stupefacenti.

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Sportello ha l’aria di chi per una vita ha subìto le azioni-reazioni di un mondo che con lui va a disgregarsi, nella noia fumosa della sua erba morbosamente e indifferentemente consumata. Ne deriva un contorcersi di indagini che tira per estensione fino a un parossismo linguistico inestricabile. Vizio di Forma è un ordigno programmato a non scoppiare mai, immerso nel cromatismo spento alla “70’s” e rischiarato da luci artificiose e lisergiche deliberatamente estetiche.

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Lo spettatore si vede vagare nello schermo, esattamente come Doc alle prese con la sua personalissima Commedia, che abolisce distinzioni di ogni sorta tra gironi infernali. Cerca di dare dare un senso agli eventi di cui è protagonista, ma la sensazione dominante è che questo significato intrinseco resti marginale: solo un vizio (di forma), appunto.

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Come le uova che si rompono, il cioccolato che si scioglie, il vetro che si infrange”, ci informa Sortilège, stridula voce narrante. Noi che guardiamo, ci sforziamo di sbrogliare una matassa e cercare una risposta a quesiti inesistenti. Anderson, consapevolmente o meno, impegna il suo adattamento cinematografico (dal libro omonimo di Thomas Pynchon) in una sceneggiatura sbagliata, deforme, isterica.

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Joaquin Phoenix, diventa un Cristo vagabondo la cui decadenza di costumi non ne ha intaccato l’essenza, mentre come un birillo, come un outsider, cade a forza di spallate da parte di poliziotti e di capitalisti corrotti. Sportello accoglie nell’indole eroica la possibilità del buono e del bene, insinuandosi in ogni microstoria come un prescelto incosciente che per vocazione ricompone testa e coda, con occhi e cuore, sempre, alla sua donna, marcia e violata come gli altri.

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Ultimo dei sentimentali, Sportello, che pare venire dopo secoli di anti-eroi cinici e annichiliti a forza di esistenzialismo scolastico, il quale non vorrebbe re-agire mai, nemmeno se saturato, nemmeno se la sua donna è una puttana, nemmeno se viene fatto esca di kg di eroina, o se, puro in un cosmo di impuri, viene continuamente scambiato per un hippie. Gli hippie che consumano pasti come fosse “un’ultima cena”, dalla quale, Sportello, è di fatto escluso. Anderson toglie al noir il climax, ri-scrive Il lungo addio di Altman senza il classico colpo di scena finale, proponendo ritratti dispersi di caratteristi umani in piano sequenza, immobili. Come spazi mentali di un cinema che non può cambiare, ma che ha il coraggio di essere altro, di trascendere.



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