Oggi ormai la console war è un passatempo da forum per ex-giocatori incastrati davanti a un monitor d’ufficio dalle 9 alle 18, un amo con cui le news di qualche sito provano ad attirare giovani in crisi ormonale, uno sterile esercizio utile ai possessori di console next-gen per dimenticare la penosa assenza di titoli validi accapigliandosi su una manciata o più di pixel anziché parlare di giochi. Vedendola ridotta in questo stato non si direbbe, ma la console war è il pilastro su cui è stata fondata l’industria del videogioco, una guerra iniziata da SEGA nel tentativo di detronizzare Nintendo, condotta senza esclusione di colpi dal tramonto degli anni ’80 attraverso i primi gloriosi anni ’90, e conclusa non senza sorprese da Sony dopo un balletto di corteggiamento che l’ha vista avvicinarsi a più riprese ad entrambi i contendenti per poi concludere le danze da solitaria vincitrice.

Un periodo storico irripetibile, probabilmente il più importante per la definizione dell’industria del videogioco così come la conosciamo oggi. Una concentrazione temporale di uomini, società, intuizioni e personaggi che ha finito per modellare indelebilmente gli anni a venire, tracciando in poco più di un lustro traiettorie impensabili, con picchi insperati e tragici crolli. I fatti principali sono noti. Nel 1983 il videogioco era passato rapidamente da next big thing a bolla tecnologica del decennio. Un mercato invaso da fiumi di paccottiglia in cartuccia, una valanga di giochi tremendi che nel bieco tentativo di sfruttare licenze cinematografiche assortite aveva finito per abbassare oltre il livello di guardia la considerazione del pubblico per il videogioco. Così mentre Atari seppelliva migliaia di cartucce invendute di E.T. nel deserto del New Mexico, console e giochi rimanevano a prendere polvere sugli scaffali dei negozi di mezzo mondo.

ET Atari New Mexico

Ad emergere dalle macerie fumanti fu una piccola industria giapponese, nata come produttrice di carte da gioco e arrivata a programmare videogame dopo un lungo processo di diversificazione durante il quale si era occupata anche dell’importazione in territorio statunitense dei coin-op prodotti in Giappone, prima di decidere di lanciarsi nella produzione in proprio sotto la guida creativa di un certo Shigeru Miyamoto. Supportato da titoli di qualità stellare il Famicom, divenuto NES negli USA, riuscì a riaccendere la curiosità dei più giovani intorno al videogioco cannibalizzando l’intero mercato e lasciando ai concorrenti le briciole. Mentre la generazione 8-bit volgeva al tramonto però qualcuno all’orizzonte ambiva a detronizzare l’apparentemente imbattibile Nintendo e sconvolgere l’industria del videogioco.

Il racconto di come SEGA sia riuscita a sorpassare Nintendo dopo una lunga rincorsa per poi finire travolta da scellerate decisioni interne occupa un posto di rilievo in ogni libro dedicato alla storia del videogioco. Laddove in molti hanno provato a narrare questi eventi ora col piglio dello storico ora affidandosi a un tono più divulgativo, Blake J. Harris col suo Console Wars azzarda invece una nuova via inedita romanzando le versioni dei protagonisti raccolte attraverso una lunga serie di interviste condotte in prima persona. Riemerso dalla lettura della bella edizione italiana* confezionata dalla Edizioni Multiplayer.it e tradotta da Christian La Via Colli credo di aver capito perché Seth Rogen – autore dell’introduzione insieme a Evan Goldberg – abbia già opzionato il libro per produrne una versione cinematografica.

Tom Kalinske SEGA

Console Wars è la versione nerd di The Wolf of Wall Street. No, non ci sono droghe, donne mezze nude né party sugli yatch, ma al di là dell’assenza degli eccessi al centro del racconto si trova ugualmente la figura di un uomo solo al comando, convinto di poter portare la propria piccola compagnia oltre ogni limite, sfidando pregiudizi e consuetudini del mercato. Il Jordan Belfort di Console Wars, è Tom Kalinske, l’uomo che ha salvato Mattel trasformando Barbie in un’icona. Harris ce lo presenta nelle primissime pagine durante una vacanza famigliare a Maui, una parentesi di riposo dopo l’addio a Mattel  per mancanza di stimoli imprevedibilmente interrotta dalla comparsa di Nakayama, boss di SEGA of Japan, deciso a far accettare a Kalinske la presidenza della divisione americana della compagnia.

Da quel momento in poi l’ascesa e la caduta di SEGA vengono narrate da Harris attraverso il punto di vista privilegiato di Kalinske. Benché la prospettiva saltuariamente passi ad osservare lo svolgersi degli eventi dall’ottica di Nintendo o Sony, il libro è indubbiamente SEGA-centrico. D’altra parte la storia della piccola compagnia che ha sfiorato l’impresa è una di quelle parabole che fanno subito breccia nell’immaginario statunitense, l’underdog che sfida le regole imposte e mischiando determinazione con un pizzico di strafottenza arriva laddove nessuno avrebbe potuto immaginare.

Pubblicità SEGA

C’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione però, ovvero la percezione non esattamente positiva che ha accompagnato Nintendo negli Stati Uniti e che vale all’azienda di Kyoto il ruolo di villain del racconto. Certo, il successo commerciale del NES aveva fatto la fortuna di sviluppatori e commercianti anche in USA, ma le ferree politiche con cui la grande N gestiva i rapporti con tutti gli anelli della catena aveva finito per suscitare più di un’antipatia, tracciando un solco in cui SEGA of America riuscì a inserirsi sfoggiando fiuto per gli affari e una buona dose di faccia tosta.

Lo scontro fra culture in realtà emerge anche all’interno delle fila di SEGA stessa, costringendo spesso Kalinske e i suoi collaboratori ad agire di testa propria mettendo i vertici giapponesi cocciuti e tradizionalisti di fronte al fatto compiuto, senza di fatto avere possibilità di intervenire. Come nel caso delle storiche pubblicità comparative con cui SEGA sfidò a viso aperto Nintendo ispirandosi a uno spot di Reebok o la decisione di allestire un emporio SEGA di fronte al quartier generale di Wall Mart per convincere la più grande catena di supermercati a stelle e strisce ad ospitare il neonato Mega Drive – in realtà Genesis negli USA – sui suoi scaffali.

Sono proprio i numerosi aneddoti la parte più succosa del romanzo: la trasformazione di un gioco su Buster Douglas in un successo nonostante la carriera del pugile sia finita prima ancora di iniziare, la bizzarra concezione che i giapponesi avevano dei gusti americani emersa nel concept originale di Sonic e Tails, il bluff con cui Kalinske riuscì organizzare il primo lancio contemporaneo a livello mondiale di un gioco ingannando Toys”R”Us o la bizzarra genesi di Ecco The Dolphin. La furbizia di Harris tuttavia risiede soprattutto nel non trattare la guerra tra SEGA e Nintendo come una faccenda ristretta ai cultori di console e pad, estendendone invece la portata a esempio di marketing universale, preferendo il pop al nerd quando necessario.

La conquista del mercato videoludico di SEGA passa infatti attraverso la definizione di un nuovo target a cui vendere i videogiochi, un pubblico più adulto rispetto ai bambini a cui si rivolgeva Nintendo. Quasi tutti gli sforzi di Kalinske sono in fondo finalizzati a dipingere SEGA come una compagnia “poco convenzionale, moderna e tecnologicamente avanzata” guidata da un gruppo di “pazzi, in senso buono”. Pur convinto che in fondo sia la bontà di un gioco a determinarne il successo, , Kalisnke ha bisogno di attirare le attenzioni della massa su SEGA e per farlo sceglie di ridisegnare l’immagine aziendale: di fronte all’impostazione compassata e “totalitaria” di Nintendo la scelta più naturale, quasi inevitabile col senno di poi, era proprio quella di spiccare per contrasto, anteponendo al classico Mario una mascotte veloce e sfrontata come Sonic.

Se oggi insomma anche i quarantenni impugnano un pad buona parte del merito è di SEGA; per capire perchè invece oggi non esista più una console SEGA bisogna leggere fino in fondo Console Wars e sbattere insieme all’impotente Kalinske sull’immobilismo della dirigenza giapponese di fronte all’inquietante ombra proiettata da Sony. Anche se di tanto in tanto il racconto di Harris inciampa in dialoghi un po’ troppo forzati che danno l’idea di una ricostruzione forse troppo romanzata in alcuni frangenti, i brevi capitoli che alternano digressioni sulla gestione aziendale ad episodi inediti di vita quotidiana negli uffici di SEGA of America non allentano mai troppo la chiave ironica. Soppesando con attenzione gli elementi a disposizione, Harris è riuscito nel non facile compito di rendere Console Wars un racconto universale, intrigante sia per chi già sa che le folle cavalcata di SEGA condurrà alla rivoluzione annunciata sul palco del E3 del 1995, sia per chi si farà condurre verso l’irruzione in scena di Sony sapientemente orchestrata come la rivelazione del colpevole di un thriller celato sotto gli occhi del lettore fin dalle prime fasi del racconto.

*Dell’edizione originale di Console Wars ne ha già scritto Emilio Bellu sempre sulle pagine di Players circa un annetto fa



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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1 Comment

  1. Ho recuperato finalmente il libro a Natale e, insomma, credevo che mi sarebbe piaciuto di più. La prima cosa che mi ha lasciato perplesso è il tono utilizzato, un po’ troppo “bella raga” per i miei gusti, con dialoghi che mi sembrano molto forzati e inventati di sana pianta. Anche la traduzione e adattamento lasciano un po’ a desiderare. Forse avendo vissuto in pieno quel periodo ho già metabolizzato il tutto ed il libro non fornisce molte notizie in più rispetto a quelle di cui ero già a conoscenza. Ad un fruitore più giovane farà un altro effetto, anche se oramai quel periodo pare proprio preistoria.

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