Una saga che si riavvolge, già pioneristica, riprende da dove aveva lasciato volanti, distopia, apocalisse. Mad Max: Fury Road, trent’anni dopo, è una specie di miracolo alla velocità della luce, una pietra miliare già al suo debutto in sala, un’iperbole action, un trita-tutto impazzito.

043

Il ritorno di George Miller è una celebrazione, un aggiornamento, un inno iper-vitale e iper-aggressivo e un insegnamento di (oltre) genere. Max Rockatansky, ex Mel Gibson nei tre episodi precedenti, ora Tom Hardy, è un eroe in penombra, tormentato dai propri fantasmi passati, che fila dritto per la propria parabola e, quasi muto, prende la sua decisione: accompagna la fuggitiva Furiosa, una Charlize Theron trasfigurata, soldato, pezzo saltato all’ingranaggio, verso una ricongiunzione sospirata, verso casa sua (le radici, la terra, l’acqua, il verde, la vita), quasi verso nulla. Ma non c’è più casa, la Cittadella e Immoran Joe dominano, allegoricamente come un totalitarismo qualsiasi, in un presente/passato futuristico, da elogio della catena di montaggio, e allevano piccoli uomini/kamikaze votati all’obbedienza e all’abnegazione, con la promessa di un Valhalla non meglio identificato.

040

Roboante, tuona, avanza, come un’eterna fuga, la cisterna di Furiosa e delle Cinque Mogli, vestali candide, alla quale si aggiunge un war-boy che da fanatico suddito si converte alla pazzia della corsa – e Max, che altra scelta non ha. Quasi un road movie degenerato. Scappano da Immoran Joe, da un futuro inesistente, una fuga per la fuga. L’immaginario di Miller è pauroso, semplicemente feroce, spietato, una macchina carnevalesca di richiami cyborg-steam-punk.

029

Deviazioni della carne, protesi, bracci meccanici, morbosità fisiche, danze corali dei tamburi e delle auto avveniristiche. Omuncoli lattei dallo sguardo nero, i sudditi, sono mutazioni deformi di un universo desertificato. Fanno da contraltare a un eterogeneo avanzare di forme, in movimento: robotici apparecchi-macchina, camion, motociclette, inferno della meccanica, l’apparato del potere, che insegue i ribelli. Il tutto a una velocità esasperata, dove tutto si perde, persino la coscienza di un effetto finale.

023

Un’iconografia composita di impatto visionario potentissimo, che sfreccia davanti alle cornee come una particella impalpabile e isterica, senza tasto pausa. E quando la macchina sospira, riprende fiato ansimante, la stilizzazione espressionista inzuppata nel blu della notte pare strizzare l’occhio a un mondo in graphic novel. Ne si vuole ancora di più. E dura pochissimo, perché l’ingranaggio della catena-film riparte.

018

Neanche un momento lacrimevole, una sotto-trama romantica a stemperare la trivella centrifuga: nessuna retorica. Le tematiche ci sono, e sono ben chiare: la sopravvivenza disperata, la lotta contro un destino ineluttabile e, soprattutto, l’uomo che ricerca l’uomo, le anime esangui che si cercano e si riflettono reciprocamente nel lampo di uno sguardo. Miller mette su un elogio della macchina che è anzitutto, per contrasto, elogio dell’uomo. Come Max, l’individuo silenziosamente torna a mescolarsi nell’indefinita massa di cui sa di esser parte, spirito rinchiuso in sé, impenetrabile, umanissimo. E mentre la meccanica salta in aria e, prima di schiantarsi, esplode in un’esuberanza di volumi, di ritmi, di shock, tutto si ferma. Per la contemplazione.

041

Un atto sfrenato, volutamente sproporzionato, dalla bellezza visiva imbarazzante, a co-pilotare la macchina John Seale con un apporto fotografico in stato di pura grazia. Un cinema che è urgenza, anzi un cinema urgente, quello di Miller, che sfugge via ancora prima di arrivare, oltre i paradigmi del genere: gli action degli ultimi dieci (o vent’anni) paiono in scala ridotta. Si prega per uno schermo che si allarghi e che ci prenda con lui. (Da vedere, e da vedere in 2D).



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