All’inaugurazione di questa 72° edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, Everest, il decimo lungometraggio di Baltasar Kormákur, da avvio alla rassegna in modalità del tutto deludente. Preannunciato da una fila di attori tutt’altro che deboli e da una trama in potenza avvincente, il film che narra la scalata della pericolosa e vertiginosa vetta, si muove tra sentieri letteralmente aridi e sterili anche sotto il profilo cinematografico.

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La sinossi è necessariamente semplice: una spedizione montana disastrosa, quella del 1996, che dai campi base del Nepal si spinge in un’impresa potenzialmente coinvolgente e ad alta carica emotiva. Il regista si basa sul resoconto di vicende realmente accadute, quello delineato da uno dei sopravvissuti della missione, Jon Krakauer: un gruppo di scalatori, organizzatosi in divisioni, finisce (chiaramente) per contare diverse perdite umane a fine spedizione. Bombole d’ossigeno mezze vuote, corde mancanti e problematiche tecniche contribuiscono alla tragedia annunciata, ma il cui pathos si avverte a intermittenza.

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Kormàkur, con all’attivo una serie di opere di genere thriller più che discrete (Contraband, Cani sciolti), costruisce una narrazione lineare delle tappe del viaggio, piuttosto povera quanto a impatto emotivo e colpi di scena.I problemi in fase di sceneggiatura (e di montaggio) si avvertono fin da subito: nessun personaggio è realmente ed efficacemente delineato sotto un profilo psicologico, tanto che i solitamente convincenti Jake Gyllenhaal, Jason Clark, Josh Brolin o Robin Wright vedono i propri talenti azzerarsi o, al meglio, livellarsi verso il basso.

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Alla cima inoltre, si arriva fin troppo presto, senza particolari scossoni. Kormàkur, insomma, perde di vista quella che poteva essere la vera attrattiva dell’opera al di là dello schematico riassunto, ravvivato talvolta da inserti forzatamente melodrammatici. Jan Hall (Keira Knightley), moglie di Rob, interpretato da Jason Clarke (colui che forse meglio si presta ad essere definito “protagonista”), lo attende a casa in procinto di dare alla luce la loro primogenita. È lo spunto ideale per dar luogo a un sottotesto drammaticamente sentimentale di amore e morte, ma che qui pare eccessivamente banalizzato e caratterizzato da una prevedibilità davvero pedante.

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Poche le leve che danno vita alla logica narrativa: un accenno all’eventuale competizione nel raggiungere per primi la sommità, concetto dimenticato dopo le prime battute; il resoconto delle motivazioni che spingono gli alpinisti ad affrontare la durissima prova, malamente convincenti; lo spirito di fratellanza che non smuove, alla resa dei conti, nessuna montagna.

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A cercare di dare ampio respiro a una cronaca esangue, provano le riprese aeree delle vette impervie ed innevate, tra accennate valanghe, bufere in arrivo, temporali tremendi e scalette instabili, finendo per ottenere l’effetto opposto: ridondante e di scarsa attrattiva visiva. Il tutto è poi appesantito da un 3D francamente inutile.

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Rimane un flebile rimpianto, quello di non aver saputo andare oltre l’ovvio e l’evitabile, affrancando l’opera da una sterilità morale e psicologica, magari illuminandola di un manifesto esistenziale. Cosa ritrova l’uomo portato alla sua massima e ultima sopportazione? L’amore, forse, ma in fondo quello c’era già, sui pendii così come tra le dimore cittadine di questi sfortunati coraggiosi. A chiudere, l’omaggio ai caduti e alle loro famiglie. Un film sicuro, che non pretende altro che essere una visione domestica domenicale di fine stagione estiva.



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