“I’m talking about these people who’ve ended up in one life instead of another and they are just so disappointed. […] They have done what’s expected of them. They want to do something different but it’s impossible now, there’s a mortgage, kids, whatever, they’re trapped. […] High-functioning sleepwalkers, essentially”.

Il problema di quando le persone si aspettano da te consigli su letture SFF è che diventa complicato convincerle che il punto di Station Eleven, libro vincitore dell’ultimo Arthur C. Clarke Award e finalista di molteplici premi letterari di pregio, non è davvero la fantascienza di cui il titolo si fa portatore. Il che è una questione parecchio spinosa, soprattutto se pensi che le persone che ameranno di più questo libro sono quelle tendenzialmente disinteressate alla fantascienza.
Tentando di tracciare l’identikit del lettore tipo di Station Eleven, mi verrebbe da scrivere di getto che è l’estimatore del Man Booker Prize, di quelli che spulciano per tempo la lista dei nominati e hanno un appuntamento annuale col vincitore, quale che sia il titolo. Peccato che questa risposta valga solo per il pubblico anglosassone o quantomeno anglofono, mentre in Italia i destini dell’editoria inglese siano sostanzialmente ignorati. Inoltre l’endorsement spudorato di George R.R. Martin in vista di Hugo e Nebula ci riporta sulla cattiva strada, perché non potremmo essere più lontani per luoghi e atmosfere da Westeros. Parlare di Pulitzer sarebbe un passo azzardato, dato che l’autrice è canadese. Il libro risuona di note dissonanti rispetto alla scrittura contemporanea statunitense, anche se il titolo che più si avvicina per sensazioni di lettura è A Visit from the Goon Squad di Jennifer Egan, vincitore del Pulitzer e così in odore da letteratura “giusta” americana da essere stato pubblicato da Minimum Fax nel 2011 col titolo di Il tempo è un bastardo.
EmilyStJohnMandel
Ricorrerò quindi ad un espediente infame per ovviare alla mia incapacità descrittiva. Dal primo momento in cui ho osservato distrattamente la foto in quarta di copertina del mio tascabile ho pensato che Station Eleven fosse il ritratto letterario della sua autrice. Il che è veramente odioso, lo so, ma il quarto romanzo di Emily St. John Mandel possiede una finezza di lineamenti, una delicatezza, una semplicità di forme portatrice di una eleganza innata che ritrovate nel suo ritratto fotografico a corredo del volume.
D’altronde non sono stata certo io a sintetizzare il libro nell’espressione apocalisse gentile, definizione ricorrente a cui la Mandel ha puntualizzato con fermezza “Gentile? E dire che ho ucciso più del 90% della popolazione terrestre”.
Spiace per la Mandel e per il suo mondo distopico non esente di ferocia, ma quando persino nel libro si sottolinea l’innata grazia del nome – Georgia Flu – del virus che ha spazzato via il mondo come conosciuto l’etichetta di “gentile” non te la leva nessuno. D’altronde anche parlandovi di distopia si rievocano sensazioni quasi estranee a questo volume, che si nutre di atmosfere sottili e sentimenti evocativi, di malinconia e quieta disperazione.
Il tutto ha inizio nell’Elgin Theatre di Toronto, dove un noto attore hollywoodiano sta realizzando il suo sogno di interpretare King Lear, sogno che svanisce poco dopo, quando un infarto lo uccide sul palco. Morte inevitabile, nonostante i tentativi di rianimazione di Jeevan, un ex paparazzo che studia da paramedico, e il pianto disperato di Kirsten, una bimba che interpreta un ruolo secondario nell’opera. Arthur Leander muore sul palco, lontano migliaia di chilometri dal suo amico dell’università Clark, dalla prima moglie Miranda e dal figlio della seconda, Tyler.
Station Eleven si svolge vent’anni dopo la morte di Arthur, quando tra i sopravvissuti all’Apocalisse si aggirano persone a lui indissolubilmente legate, ma anche venti, trent’anni prima, quando quei legami si sono formati e spezzati. Parecchi capitoli sono dedicati alla notte della morte di Arthur, la notte in cui il paziente zero atterra negli Stati Uniti e scatena il disastro.
La distopia non è ciò che interessa a Emily Mandel, il che dimostra quanto non sia una scrittrice di fantascienza. Uno autore di stampo fantascientifico si sarebbe gettato a capofitto in quanto e cosa succede dopo la fine del genere umano, lei si limita a darne un tenue scorcio, un acquerello lacunoso e talvolta deludente, trascorrendovi solo una metà del romanzo. Non le interessa la violenza, la disperazione, le difficoltà, se non come strumenti con cui modellare i suoi personaggi, fino a giungere a una rivelazione, un’istante di catarsi e piena comprensione di sé e di Arthur, che è stato per loro, nel bene e nel male, uno degli strumenti che ha scavato più a fondo, fino a fargli assumere la forma attuale.
Risulta semplice rimanere affascinati dal viaggio dell’orchestra itinerante a cui si è unita Kirsten, che si sposta tra i piccoli assembramenti urbani portando la musica e le opere di Shakespeare, un passato talvolta ritenuto perduto per sempre, tra i quanti hanno vissuto il prima e quanti faticano ad immaginarlo. L’immagine è potente come i “libri viventi” imparati a memoria clandestinamente sul finale di Fahreneit 451. Un filo conduttore di una narrazione melanconicamente frammentaria quanto gli spostamenti della Symphony Orchestra, portatrice di quel concetto di umanità che postula il contrario della regola regina postulata dalla distopia: sopravvivere è la prima e unica necessità a cui è possibile e necessario sacrificare anche la propria umanità. Sbagliato, replicano Bradbury e Mandel: survival is insufficient, prendendo in prestito una perla di saggezza trekkiana.
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Di questo potrete leggere nelle altre recensioni. Quello che ha colpito me più nel profondo e che mi preme trasmettervi è la meravigliosa ingiustizia su cui si regge il romanzo. Arthur Leander non è una persona da ammirare, anzi: lo capiamo pagina dopo pagina, accompagnando quanti entrano in rotta di collisione con la sua parabola, affezionandoci a loro, nemmeno sicuri di come si concluderà la loro vita, se cancellata dalla Georgia Flu oppure in qualche modo annichilita o arricchita dal rapporto con Arthur che, ironia della sorte, è anche l’unico personaggio che è sopravvissuto indenne alla Georgia Flu. Senza dover fare i conti col terribile virus, col mondo che ha disegnato e nemmeno con la consapevolezza della sua presenza, continua a vivere nelle menti di chi è rimasto, riuscendo persino a plasmarne le scelte da lontano, lontanissimo.
Station Eleven è il titolo di una graphic novel che viene creata nel corso del romanzo da una di queste connessioni, una replica meravigliosamente malinconica e fantascientifica dei fragili equilibri del mondo “prima”, che l’attore mette da parte con un’occhiata, ignaro di esserne il protagonista.
Quel Station Eleven è questo Station Eleven: un romanzo che ruota attorno al racconto ora elegiaco, ora evocativo, ora poetico della vita di un uomo che è passato incurante accanto ai frutti più preziosi della sua esistenza, ignorandoli, alla ricerca di qualcosa di inafferrabile. Si può essere involontariamente crudeli? Si può sbagliare completamente a tracciare la propria parabola eppure continuare a deviare quella di quanti sono commossi fino alle lacrime o quotidianamente ispirati dalla rielaborazione poetica dei suoi errori in forma di graphic novel? Sì, se siamo all’interno di Station Eleven, un romanzo in cui i meriti, gli errori e le debolezze di Arthur plasmano coloro che stanno scrivendo il futuro dell’umanità.
(Station Eleven è stato pubblicato anche in Italia da Bompiani con il titolo Stazione undici.)
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