Fa strano pensarci oggi, specie in Italia dove oramai è defunto da tempo, ma c’è stato un tempo in cui al posto del gossip, delle opinioni politiche sempre uguali a sè stesse e degli editoriali di tuttologi, bimbiminkia e mignottame vario, c’era il Giornalismo. Quello vero, utile, quello delle inchieste scevre da contaminazioni ideologiche, dei fatti e dei risultati.

Spotlight racconta un piccolo pezzo di storia (vera) di quel modo di mettere insieme un giornale e un’inchiesta ovvero l’indagine svolta dal gruppo “investigativo” (chiamato Spotlight, appunto) del quotidiano The Boston Globe sull’arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto decine di casi di pedofilia perpetrati dai sacerdoti e preti locali.

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Tom McCarthy (un tipo eclettico, che talvolta come attore gira scemenze tipo 2012 o Ti presento i Miei ma che da regista e sceneggiatore ha quasi sempre tenuto un alto profilo, realizzando pellicole piccole ma ben fatte quali Station Agent, L’ospite inatteso e Mosse vincenti, senza dimenticare lo script di Up) propone un formato classico per la messa in scena della storia, che richiama classiconi del genere, molto in voga negli anni ’70, come Tutti gli uomini del Presidente.

L’incedere lento ma inesorabile della storia permette a McCarthy di disvelare i grandi segreti che si celano dietro ogni inchiesta degna di tal nome: intuito, perseveranza, lavoro e un pizzico di fortuna. Rispetto ai canoni classici però, Spotlight riesce anche a trovare chiavi espressive fresche e innovative: si pone ad esempio l’accento sul “localismo” del giornale, che riceve una scossa solo quando in redazione arriva un direttore estraneo al posto.

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Tra i “cattivi” della storia, alla fine, finiscono poi gli stessi giornalisti che avrebbero potuto fare luce sulla vicenda molto prima, avendo in mano tutti gli elementi per procedere. Il manicheismo quindi, non è di casa in Spotlight che avvince come un thriller e affascina come un legal, senza appartenere a nessuno dei due generi.

A rendere memorabile l’esperienza è il magnifico cast, particolarmente coeso e affiatato. Difficile segnalare il migliore tra i bravissimi Keaton (che sta vivendo un periodo incredibile, dopo l’exploit di Birdman), Tucci, McAdams e uno stupefacente Liev Schreiber (il cui tono sommessamente baritonale è assolutamente caratteristico), il direttore che ogni giornalista serio vorrebbe avere.

Asciutto e senza fronzoli o retorica, capace di gestire materiale scottante e ancora di stretta attualità, antispettacolare nella messa in scena e logaritmico nel suo svilupparsi ed espandersi, Spotlight trasforma schemi narrativi classici in un qualcosa di nuovo ed esaltante. Se il giornalismo è morto, il cinema che racconta il buon giornalismo, per fortuna, è ancora vivo e vegeto.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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