Un parlamentare di maggioranza (Favino), ammanicato con un celebre esponente della malavita organizzata (Amendola), per il quale sta per far approvare in Parlamento una legge che darà il via libera ad una gigantesca speculazione immobiliare a Ostia, si trova con una brutta gatta da pelare: una escort minorenne con la quale ha trascorso una notte di sesso e droga, muore tra le sue braccia. Per far occultare il cadavere, deve accettare il ricatto di un esponente di gang di zingari, fatto che darà il via ad una serie di omicidi, vendette e ritorsioni.

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Non stupisce Suburra e non perchè sia un brutto film, anzi. Non stupisce perchè i romani e gli italiani faticheranno parecchio a trovare nell’opera di Sollima un qualche elemento di novità. Siamo così assuefatti al malaffare che pervade quotidianamente il Paese, di cui Roma è appunto Mafia-Capitale, che più che un film, pare di assistere ad una ricostruzione drammatizzata di fatti quotidiani realizzata da un telegiornale dotato di un buon budget.

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Suburra, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, ha un intreccio quasi altmaniano, con personaggi di diverso spessore, professione ed estrazione sociale, che vengono travolti da un insolito destino in un piovosa Roma invernale. Lo script non dimentica nessuno: politici, mafiosi di serie A e Z, zingari, mignotte, papponi, Pr e ovviamente religiosi, anche se questi ultimi, a ben vedere, paiono cacciati lì solo per completare il quadro “istituzionale”.

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Viaggia tra molti alti e qualche basso, Suburra: ottimo quanto a messa in scena (fatta eccezione per un’ unica sequenza “con gli effetti speciali” realizzata come peggio non si potrebbe), scricchiola per alcune scelte un po’ discutibili relative al finale, catartico sì, ma poco credibile se si considera come ci si è arrivati. Ma vincono i pregi, eccome.

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Sollima gira con mestiere (fin troppo, verrebbe da dire, forse sarebbe il caso di provare a cambiare genere per il prossimo film), potendo contare su un solido background e su un ottimo cast, che piace sia che si guardi ai nomi noti (Favino immenso come al solito, Amendola, Germano) che alle facce relativamente nuove (Alessandro Borghi/Numero 8 e Greta Scarano/Viola in particolare, una coppia indimenticabile). E’ un bene che gli attori funzionino, perchè la cosa migliore di Suburra sono proprio i personaggi, tutti tristemente credibili nella loro assurda mediocrità che viene mascherata solo dal poter tenere in mano un’arma, in gabbia un cane feroce, dal poter corrompere qualcuno per raggiungere i propri scopi o iniettarsi una dose di eroina.

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La Roma e l’Italia raccontate da libro e film sono senza speranza, i legami tra malavita e politica, malaffare e droga, sesso e potere restano inscalfibili, protagonisti di una commedia drammatica che viene rappresentata dalla notte dei tempi. Così come in Gomorra mancano i buoni, anche qui esistono solo diversi gradi di malvagità e l’idea stessa di onestà e rettitudine pare non possa essere immaginata nemmeno come concetto astratto. La rappresentazione dei politici e dei criminali (impossibile distinguere fra i due, scriverebbe Orwell) è talmente credibile da fare passare in secondo piano alcuni manicheismi (la “sparata antimagistratura” di Favino nel prefinale) un po’ intempestivi.

A metà tra il cinema di genere degli anni ’70, quello dei film con i titoli memorabili e la satira sociale contemporanea, Suburra, per quanto non esente da difetti, scrive una bella pagina di cinema italiano. L’unica cosa davvero inquietante è essere perfettamente consapevoli che quella che si è vista non è un’opera di fantasia, superata com’è dalla realtà di tutti i giorni. Infatti dal cinema si esce incazzati. Parecchio incazzati.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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2 Comments

  1. È il lato B de La grande bellezza, quello che rimane nell’ombra (oddio, ora sempre sui giornali, ma ai tempi del romanzo erano solo sussurri…) e che finanzia la dolce vita edonistica delle terrazze. Sollima è bravo e dietro un film che si sforza di rimanere sempre basso ha nascosto un paio di chicche visuali niente male, tipo la discesa parallela tra le vicende dei protagonisti e le ambientazioni che passano progressivamente dalle inquadrature calde dei palazzi del potere alle borgate spoglie.

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