The End of the Tour ha un inizio in sottotraccia, con la morte di David Foster Wallace e la sommessa e commossa elegia funebre del giornalista (e scrittore) David Lipsky che l’aveva conosciuto e intervistato oltre dodici anni prima, all’uscita di Infinite Jest. Folgorato dal suo romanzo, verso il quale aveva comunque provato ritrosia, Lipsky propone a Rolling Stone un’intervista, promette una storia. Incontra Wallace. E ottiene molto di più.

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Il regista James Ponsoldt, di cui ricordiamo il delicatissimo The Spectacular Now, torna a immergersi – stavolta con una materia adulta e difficile – nella paura dell’inadeguatezza, nell’incontro tra due reticenti disadattati. David Foster Wallace è un uomo schivo, capelli lunghi e spettinati, bandana fuori luogo, occhialini tondi, approccio nervoso, privo di filtri, istintivamente geniale, ansiosamente irruente.

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Ponsoldt sta attentamente dietro di lui, dietro alle conversazioni dei personaggi, braccandoli con una camera a mano che sussulta e si muove con il respiro ininterrotto dei suoi protagonisti, supportati dalle ottime interpretazioni di Jesse Eisenberg – che rende il personaggio un personaggio alla Eisenberg, ed è perciò al solito convincente, di riflesso – e un Jason Segel visibilmente soddisfatto di potersi cimentare con una figura difficile, aggrovigliata, complessa, epocale, tragicomicamente drammatica, anti-mitologica, e per quanto ci riguarda può ritenersi soddisfatto.

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Ma a funzionare maggiormente e a rendere il film incalzante e affascinante, a rendere il faccia a faccia e i botta e risposta che tengono su il film – che si svolge, prevalentemente, tra quattro mura (di un aereo, di una casa, di un supermercato) attraverso le quali i due – l’uno vuole qualcosa in più, l’altro vuole quello che l’uno ha già – si inseguono, confrontano, interrogano, scontrano, confessano vicendevolmente – è la sceneggiatura di Donald Margulies , tratta dal romanzo Come diventare se stessi.

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David Foster Wallace si racconta, nella trascrizione dell’intervista di Libsky. Si passa da momenti come il dialogo su Alanis morrisette (la star il cui poster può essere appeso in casa perchè è affascinante in maniera reale e umana) e la dichiarazione d’amore a Die Hard, fino a emersioni di inquietudine, in cui si riverbera il malessere esistenziale e la sottaciuta competizione provata da Libsky (e anche, inaspettatamente, da Wallace), la forzatura e le falle ‘recitative’ di un incontro che pur è congeniale ad entrambi, ma è pur sempre un appuntamento organizzato per presentare meglio al pubblico il profilo narrativizzato dell’iconico Wallace.

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Eppure, The End of the Tour mostra come il rispecchiarsi e il respingersi dei due David in quella manciata di giorni abbia, più di tutto, avuto a che fare con la solitudine, con una inattesa, non dichiarata giustapposizione di sentimenti, con un vuoto che per qualche attimo si dissolve.



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