Vogliamo bene ad Alejandro Amenábar. Per lo statuto di cult che ha dato a un film – su carta semplice ghost story con ribaltamento finale – come The Others, infestato di inquietudine sottopelle ed epidermica disperazione. Per la profondità tematica e la densità espressiva che irradiavano dal bellissimo dramma Mare Dentro. Per la capacità di evitare l’agiografia e trasformare il biopic sull’immensa quanto sconosciuta figura di Ipazia in un melò struggente e frastagliato (Agorà: recuperatelo). Per la precisione efferata di Tesis, per i turbamenti visivi di Apri gli occhi.

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Amenábar è sempre stato un regista duttile, stratificato, e ininterrottamente giusto, immerso carne e cinepresa nel racconto. Almeno fino a Regression. Sei anni dopo Agorà, attendevamo con ansia il ritorno di un cineasta che non aveva mai sbagliato un colpo. Ma stavolta qualcosa è andato parecchio storto.

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Su carta, il thriller psicologico aveva tutte le carte in regola per essere materiale dinamitardo perfettamente calato nell’ottica e nella poetica cinematografica dell’autore spagnolo. Una violenza atroce che un padre compie senza averne memoria, una ragazza spezzata, segreti prigionieri nel grembo oscuro di un provinciale villaggetto del Minnesota, l’esistenza di una – invisibile, solo percepita, solo temuta – setta satanica, negazionismo e (forse) omertà, verità che si liquefanno e si scombinano, e poi la potenza concettuale ed esplosiva dell’innesto di un’idea, la disfunzionalità del nucleo familiare.

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Di carica potenziale, insomma, ce n’era a iosa, eppure con sgomento ci troviamo davanti a un prodotto indifendibile sotto tutti i punti di vista. Dal cast – inebetito Ethan Hawke, ridicola e sopra le righe Emma Watson, l’unico convincente è David Dencick mentre sempre credibile è la Dale Dickey di Un gelido inverno – fino alla sceneggiatura raffazzonata, ripetitiva in svariate dinamiche (compreso il poliziotto-comic relief e l’accenno romantico tra i protagonisti), insulsa nel disegnare cause ed effetti, incapace di avvicinarsi alla verosimiglianza e a sospendere l’incredulità nella rivelazione finale (e dire che Regression è tratto da una storia vera), rivelazione che peraltro avrebbe potuto aprire un discorso ampio e intrigante sulla potenza della suggestione, ma che è pasticciato come il resto del film.

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E Amenábar? L’apporto della regia è inesistente, inconsistente, esangue: Regression potrebbe essere stato diretto da un qualunque mestierante della peggio fiction tv, tanto che se non sapessimo che porta la sua firma, saremmo stati portati a pensarlo con cognizione di causa. Una delle più cocenti delusioni di questo 2015.



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