Prima di salire sul ring e perdere la vita contro Ivan Drago, Apollo Creed aveva avuto una breve storia con un donna, che, per uno strano scherzo del destino, muore anch’essa prematuramente. Il figlio, Adonis “Donnie” Johnson (Michael B. Jordan), cresciuto in un orfanotrofio viene salvato dalla vedova del campione, che gli dà un’educazione e gli permette di avere un ottimo lavoro. Tuttavia, il buon sangue di Apollo non mente e Adonis decide di mollare tutto per diventare un pugile professionista: ha però bisogno di un vero allenatore e così rintraccia un collega e amico del padre, che vive a Philadelphia e si chiama Rocky Balboa…

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Poteva andare malissimo ma, proprio come è sempre capitato al protagonista della saga di cui rappresenta uno spin-off, finisce in trionfo. Bello, proprio bello, intenso, emozionante, denso e vissuto questo Creed, che conferma l’abilità ed il talento di Ryan Coogler sia come regista che come scrittore.

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Il maggior pregio di Creed è quello di riuscire a tessere una rete leggera che avvolge almeno quattro film della saga di Rocky (i primi tre e l’ultimo Balboa) senza però dover ricorrere al citazionismo a tutti i costi: laddove quest’ultimo si palesa è per esigenze di copione e non per blandire lo spettatore.

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Coogler dev’essersi rivisto il primo Rocky, classe 1976, fino alla nausea: imparata la lezione costruisce un film che ripercorre, attualizzandole, tutte le tappe che portano il protagonista (l’ottimo Michael B. Jordan già in tandem col regista in Fruitvale Station) dall’anonimato al ring, passando per testarde azioni di convincimento di un vecchio maestro stanco, malato e pieno di dubbi, liason amorose con ragazze problematiche, allenamenti vecchio stile e incontri all’ultimo respiro contro avversari più forti ed esperti.

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Creed funziona perchè racconta una storia che conosciamo già, con personaggi nuovi che si muovono però in luoghi amati e a noi ben noti: la palestra di Mickey, il ristorante di Rocky, il cimitero dov’è sepolta Adriana, il ring. Coogler approfondisce il rapporto allievo/maestro, più di quanto fecero a suo tempo lo script originale di Stallone e la regia di Advilsen, e lo trasforma scena dopo scena in un sodalizio umano e professionale che assomiglia tanto a una famiglia allargata, visto che vi sono ricompresi anche gli spettatori: ecco quindi arrivare l’inseguimento alle galline, i salti con la corda, i movimenti che diventano via via sempre più sciolti e precisi, le tutone grigie indossate per attraversare Philadelphia e l’intero corredo “da allenamento” che abbiamo imparato a conoscere nell’arco di quasi quarant’anni (seppur con una base musicale decisamente diversa stavolta).

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E poi c’è lui.
Sly firma con Creed la miglior prova in assoluto della sua carriera (dopo il primo Rocky, ovviamente) e non sarebbe disdicevole una sua nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista. La sceneggiatura affida a Stallone una mezza dozzina di battute memorabili, perfettamente in linea col personaggio, che il nostro vecchio eroe fa sue e noi nostre, perchè Rocky siamo noi, tutte le volte che perdiamo, che cadiamo a tappeto e riusciamo a rialzarci, magari aggrappandoci alle corde un secondo prima che suoni il gong.

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Se siete fan di Rocky Creed sarà il vostro film dell’anno, trascorrerete l’ultima mezz’ora saltando sulla poltrona, piangendo , incitando vecchi e nuovi campioni a combattere e resistere e salirete con loro, per l’ennesima volta, sulla più celebre scalinata del mondo. Qualora non lo foste, beh, avrete assistito comunque ad un bello spettacolo: come dire, con Rocky si vince sempre.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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2 Comments

  1. E intanto la nomination al Golden Globe è arrivata…è l’anno buono per Sly.

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