Capire e spiegare come il brand di Star Wars abbia potuto conquistare il mondo, radicandosi così profondamente nella cultura occidentale senza bisogno di forzature o imposizioni, solo grazie alla forza dell’immaginario avventuroso e un po’ ingenuo partorito dalla mente di un regista fresco di università e con appena un singolo film di successo all’attivo non è esattamente un impresa semplice. Per nulla intimorito dalla portata del suo proposito, con il suo Come Star Wars ha conquistato l’universo, edito da Multiplayer Edizioni e ottimamente tradotto da Elisabetta Colombo, Chris Taylor si lancia a capofitto in questa impresa titanica, alternando senza soluzione di continuità il piglio rigoroso dello storico, che vaglia tutte le fonti e diffida sempre della versione ufficiale anche quando proviene dallo stesso Lucas, con quello del fan dichiarato che parlerebbe all’infinito dell’inimmaginabile quantità di dettagli e aneddoti collegati alla propria passione che è riuscito ad apprendere nel corso degli annui.

Il primo passo di questo gigantesco lavoro di ricostruzione, ovvero dimostrare che Star Wars abbia davvero conquistato il nostro universo, è quello concettualmente più facile, anche se per scoprire se davvero esista qualcuno nel mondo occidentale che non abbia mai sentito parlare di Star Wars Taylor deve arrivare fino a Widow Rock, Arizona, e assistere alla prima di A New Hope in lingua navajo. Nonostante le prime file siano gremite di anziani della storica tribù di nativi americani, l’illusione di poter assistere alla cerimonia di iniziazione dell’ultimo essere umano entrato in contatto conm l’epopea familiare della dinastia Skywalker dura poco. Persino George James Sr., ottantottenne ritiratotosi tra i monti e le sue pecore dopo aver servito come code talker durante la II Guerra Mondiale, durante la sequenza iniziale si ricordò di aver già visto degli “uccelli selvatici” con le ali a X che combattevano nello spazio.

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Senza la possibilità di uno studio etnologico così approfondito ed estremo come quello di Taylor, nel mio piccolo ho provato anche io a replicare l’esperimento, verificando in prima persona quanto Star Wars abbia saputo scavare in profondità nella nostra cultura pop. Verificare come Darth Vader, Yoda o una spada laser siano elementi immediatamente riconoscibili da chiunque è stata solo la conferma più superficiale dell’ipotesi. Ben più interessante è stato notare come intere sequenze o grosse rivelazioni – sì, sto parlando di QUELLA rivelazione – fossero già presenti nel subconscio delle cavie che nei giorni scorsi ho sottoposto alla visione della trilogia originale in previsione dell’avvento messianico di domani.

Proprio come nel caso di A New Hope, buona parte della forza del libro di Taylor risiede nel ritmo sincopato che riesce a imprimere alla narrazione. L’inevitabile excursus storico sulla carriera di Lucas è sistematicamente intervallato da capitoli dedicati ad eventi, aspetti, personaggi o episodi che formano la galassia della mitologia espansa dell’universo di Star Wars. Perché è indubbio che il mito sia iniziato con l’atterraggio su un pianeta desertico di due droidi sgangherati, ma senza i filmati virali di impacciati spadaccini laser, i raduni dei Trooper della 501st Division, le innumerevoli parodie oltre a tutti i prodotti culturali e commerciali costruiti intorno alla saga, difficilmente oggi l’iconografia di Star Wars potrebbe essere riconosciuta anche tra gli anziani navajo.

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Più interessanti di queste pur piacevoli digressioni sono le riflessioni di Taylor sulla fantascienza che ha maggiormente condizionato la visione di Lucas. Il punto di partenza è sempre Flash Gordon. È risaputo che Star Wars nasca come un tributo all’avvanturiero spaziale, un’idea che Lucas si vide costretto a rimaneggiare perché impossibilitato a mettere mano sui diritti cinematografici. Nel mare di sci-fi di cui il Lucas adolescente si cibava – la sua più grande passione dopo le macchine veloci – sono numerosi gli spunti che finiranno più o meno consapevolmente nella stesura finale di Star Wars, da Buck Rogers a John Carter da Marte. Taylor però non si ferma agli sceneggiati televisivi e si addentra ancora di più in profondità, ricollegando la genesi di Star Wars alla diatriba sulla narrativa scientifica tra Jules Verne e H. G. Wells, il primo sostenitore di una narrativa fantastica ancorata in qualche modo alla plausibilità scientifica, il secondo più interessato a raccontare storie ai cui meccanismi la scienza può anche piegarsi nel contesto della finzione narrativa. Il solco che separa la fantascienza di Star Trek dalla space opera di Star Wars.

Nonostante la profonda divisione tra i fan delle due saghe spaziali, il Lucas adolescente amava il gusto per l’ignoto che avvertiva nell’esplorazione planetaria dell’equipaggio dell’Enterprise. Quel che emerge con chiarezza nelle oltre 400 pagine di Come Star Wars ha conquistato l’universo è la serenità con cui George Lucas riconosce l’influenza di elementi esterni – racconti e soprattutto persone – nel successo della sua creazione. A partire da Ralph McQuarrie, le cui illustrazioni del concept – che potete ammirare anche in questa pagina – servirono da traduttore universale per far comprendere alla 20th Century Fox la visione del film che Lucas faticava a trasmettere a parole. Senza dimenticare ovviamente Gary Kurtz, fondamentale nel ruolo di produttore per come riuscì a tenere insieme la troupe durante una a dir poco travagliata gestazione della pellicola e per il lavoro di limatura di un budget che stava lievitando senza controllo: un colpo di fortuna dovuto da un cambio favorevole ben oltre l’immaginabile tra dollaro e sterlina. Una dei tanti casi fortuiti che hanno contribuito alla nascita del mito.

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Ben poco fortuita fu invece la strategia di marketing di Lippincott, a cui dobbiamo il romanzo e i fumetti Marvel di Star Wars che fecero partire il passaparola tra i più giovani, o la realizzazione dell’innovativa Dykstraflex, la tecnologia con cui furono girate le riprese degli effetti speciali basati sui modellini di astronave. Un successo di cui Lucas avrebbe dubitato fino all’ultimo, con fondate preoccupazioni per altro: appena nata la ILM assomigliava a una sorta di piccola comune autogestita, con ritmi di lavoro ben poco industrializzati e un abbondante consumo di marjuana. In fondo siamo sempre nei ’70, un periodo in cui i coniugi Lucas – il libro rende giustizia anche a Marcia, ex moglie di George e autrice fondamentale del montaggio di Star Wars, il cui contributo nel tempo è stato sminuito dalla LucasFilm – frequentano amici che di nome fanno Francis Ford Coppola o Brian De Palma. Proprio a De Palma si deve il fondamentale lavoro di editor sulla sequenza dei titoli di testa, decisamente meno incisivi nella stesura di Lucas.

Condensando la miriade di concetti che Taylor assembla nelle prime 200 pagine del volume, Star Wars ha conquistato l’universo grazie a un’idea che Lucas ha cullato per anni ed ha infine realizzato grazie a un’incrollabile tenacia, assistito da un’irripetibile e memorabile sovrapposizione di eventi e personaggi grazie ai quali è riuscito a tenere a bada i lati più irrequieti del suo naturale talento filmico, trascendendo i suoi limiti personali – soprattutto quello della scrittura – e mascherando quelli tecnici.

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Diventa facile capire di conseguenza cosa sia andato storto nella seconda trilogia: paradossalmente la discriminante potrebbe essere descritta con l’assenza di tutte quelle costrizioni che portarono in origine Lucas a compiere una serie di compromessi – su budget, casting e plot – risultati poi decisivi. Privato di un Harrison Ford capace distruggere senza giri di parole i suoi dialoghi sul set, senza un De Palma a rieditare l’introduzione – la tassazione sulle rotte mercantili?! Really?! – e senza la necessità di far quadrare i conti, Lucas si è fatto semplicemente prendere la mano. A quel punto però si era già tramutato nel Creatore e, purtroppo per lui, nessuno osava più contraddirlo. Taylor naturalmente non gliene fa una colpa. Non potrebbe mai, da fan di Star Wars non può che guardare a lui in maniera benevole, nonostante la giusta delusione per La minaccia fantasma e tutto ciò che ne è seguito lo portino a trattare la figura di Lucas con maggiore ironia e disincanto nella seconda parte del volume.

In fondo la colpa di Lucas è sostanzialmente quella di non aver capito quando era il caso di smetterla di parlare di Star Wars. E il buon Chris Taylor, con le sua sua dichiarazione d’amore per l’universo di Star Wars lunga più di 470 pagine, non si trova esattamente nella posizione più comoda per muovere una critica di questo tipo. Ma oggi, 15 dicembre 2015, quando solo una manciata di ore ci separano dal Il risveglio della Forza, quanti tra quelli arrivati alla fine di questo articolo potrebbero sostenere di non essere macchiati della stessa colpa?

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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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