A quanto pare, sì.

Un commento alla seconda stagione di Fargo, di gran lunga la migliore serie dell’anno (del resto, non l’abbiamo citata a caso quando abbiamo redatto l’elenco di quelle da non perdere), potrebbe risultare pleonastico; tuttavia, per i pochi che non avessero ancora incrociato i loro destini con questo capolavoro di narrazione e scrittura, beh, eccoci.

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Dopo una prima stagione dedicata al tema della rinascita e della vendetta personale, stavolta il focus è sulla Famiglia, in senso metaforico e letterale. Protagonisti della storia, ambientata nel Minnesota alla fine degli anni ’70, sono infatti due clan mafiosi, uno radicato da generazioni sul territorio, l’altro in forte espansione e già strutturato come un’organizzazione malavitosa moderna. In mezzo alla faida finiscono poi i coniugi Peggy Blomquist (Kirsten Dunst) e Ed (Jesse Plemons) che cercano di sfruttare il corso degli eventi a loro vantaggio e una dozzina di personaggi minori che, durante la serie, hanno ognuno il proprio momento di “gloria”.

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Seguendo il canovaccio perno del celebre film dei Coen e della prima stagione, anche stavolta la letale combinazione tra un evento casuale (un incidente d’auto) ed uno calcolato che sfugge di mano al suo autore (un triplice omicidio) conduce a conseguenze disastrose per tutte le persone che ne vengono (anche indirettamente) coinvolte. La fatalità diventa però anche elemento scatenante di desideri fino ad allora sopiti che stavolta vengono inquadrati anche sotto il profilo storico (si pensi a tutte le reattive e volitive figure femminili presentate, in anni in cui l’emancipazione si stava lentamente ma inesorabilmente affermando).

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Difficile trovare un punto debole nella seconda stagione di Fargo: la qualità della scrittura è eccelsa, con dialoghi di incredibile semplicità che nascondono una densità e uno spessore che altre serie si sognano. Noah Hawley, il deus ex machina della serie, non ha bisogno di personaggi particolarmente iconici o sopra le righe né a scene “madri” per lasciare il segno. La storia, senza un solo attimo di tregua, nasce, si sviluppa e muore nell’arco di dieci, memorabili, puntate.

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La seconda stagione di Fargo, che sulla carta si può considerare una sorta di prequel della precedente, con il personaggio dell’agente Lou Solverson (Patrick Wilson) a fare da collante (è il padre di Maggie, la protagonista della prima stagione, ambientata negli anni ’90), ripropone le atmosfere e i tratti distintivi dell’originale, un mix di humour noir, thriller, non sense e filosofia. Come e più rispetto alla prima stagione viene data un’attenzione particolare ai personaggi minori, quelli che hanno relativamente poco spazio a loro disposizione ma che lasciano il segno (tre per tutti: l’indiano adottato, l’avvocato ubriacone e la commessa nichilista della macelleria, senza dimenticare il memorabile il cameo di Bruce “Ash” Campbell nei panni di un improbabile Reagan candidato alle Presidenziali). Il cast, volti celebri e non, gira a mille all’ora, con alcune punte di eccellenza insperate (incredibile la Dunst) ed una qualità media pazzesca.

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C’è molto pessimismo in Fargo, che viaggia sui binari narrativi che i Coen avevano esplicitato nel film omonimo e riassunto del discorso che Tommy Lee Jones faceva alla fine di un altro loro classico, Non è un Paese per vecchi, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy. A bilanciare la pesantezza e i drammi esistenziali che attanagliano più o meno tutti i personaggi, accorrono i richiami del misconosciuto A Serious Man, il cui incredibile finale, con l’Ignoto e l’Imponderabile che si palesano a fare da arbitri nelle vicende dei piccoli ed insignificanti esseri umani, viene in Fargo ripreso ed esteso ad ogni puntata. Il Caso domina ogni cosa, il Destino è ineluttabile, l’unica salvezza, forse, sono gli affetti e l’amore.

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La serie è stata rinnovata recentemente per una terza ultima stagione, che sarà ambientata nel 2010 e andrà in onda il prossimo anno. Se è vero il detto che non c’è due senza tre, prepariamoci ad un altro spettacolo indimenticabile. Intanto godiamoci questo.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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