Uscito un po’ ovunque, tranne che da noi, Mistress America  si è subito accaparrato un posto nel cuore dei fan di Woody Allen, quelli delle nuove generazioni, alla disperata ricerca di panacee efficaci per sopravvivere alle nevrosi attuali e non ancora pronti a scansare o a ridimensionare i piaceri dell’esistenza. Se Baumbach is the new Allen, la splendida Greta Gerwig ne rappresenta la musa, portavoce dei nuovi conflitti interiori che, esternati a ogni angolo di Manhattan, e senza rinunciare alle sofisticate pantomime dell’ego, rivelano il bisogno psichico e fisico che abbiamo degli altri.

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Diversamente dai precedenti Lo stravagante mondo di Greenberg e Frances Ha, che mantenevano tutto sommato una forma soliloquiale nel confronto con il dolore, con la paura del cambiamento e con gli altri, o dal più recente Giovani si diventa, che invece ripartiva tra due personaggi – rappresentati però come soggetti interdipendenti e coppia inscindibile – le stesse nevrosi; Mistress America si spinge oltre, si allontana dall’intimismo filodrammatico in cui il soggetto è padrone della sua stessa afflizione e si avvicina a una tragicomica teatralità in cui i personaggi sono dipinti, piuttosto, come vittime di un destino beffardo. E’ in questo modo che si finisce per provare comprensione per tutti, nonostante i difetti o le colpe, nonostante i pregi e le ragioni.

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In Mistress America è presente una sofferenza generalizzata, un vero e proprio mal comune, tale da renderla buffa ed esorcizzabile, sia a scapito di altri, sia grazie agli altri. Ed è questo a rendere possibili nuovi nuclei familiari, edificati, corrotti e al contempo rafforzati dagli stessi stimoli costitutivi della famiglia tradizionale (l’empatia, i ricordi condivisi, il tempo, l’interesse, l’affetto ma anche la sopportazione) e a renderli indispensabili e stabili oltre i legami legalizzati o di sangue.

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Tracy/Lola Kirke è la giovane e acuta ragazza di provincia giunta a New York per frequentare il college, un’esperienza tutt’altro che emozionante e in linea con le sue aspettative, ma è soprattutto un nuovo arrivo nella famiglia allargata di newyorkesi in crisi che l’accolgono offrendogli il primo e più importante degli insegnamenti: ci si può ferire, tradire, allontanare, ma non ci si può mai e poi mai appellare alla verità privata del singolo, dirla ad alta voce, renderla pubblica.
Si tratta di un tacito accordo, secondo il quale solo tu puoi raccontare te stesso nel modo in cui più ti aggrada e senza che gli altri possano smentirti pur conoscendo i fatti – ed è forse per questo che nell’esilarante sequenza in sala da pranzo, quando Tracy legge il suo racconto su Brooke/Greta Gerwig, tutti (familiari, amici e vicini) fanno presto a raccogliersi in un corale rimprovero e a schierarsi contro la giovane. Tracy ha violato l’accordo e ognuno si sente vulnerabile e in dovere di difendere Brooke. Si tratta di un momento di grande comicità, ma anche di straordinaria sensibilità, in cui la farsa è allestita su tante piccole menzogne che esplodono in difesa dello schermo sociale.

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Che famiglia è, allora, quella in cui le verità non possono essere divulgate e affrontate? Quella che, secondo Baumbach, sa far fronte alle debolezze di ogni componente trasformando le presunte verità in dimostrazioni di affetto e comprensione, rendendole non solo meno dolorose e accettabili, ma amorevolmente e poeticamente condivisibili: “[…] Era l’ultimo cowboy. Tutta romanticismo e fallimento. Il mondo cambiava, e la sua spontaneità aveva un posto. Essere un faro di speranza per chi vale meno, è una faccenda che si fa da soli”. Dilaniante!



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