Non c’è un altro fumetto che urli anni ’90 in ogni singola pagina quanto la Saga del Clone. Mi rendo conto che per chi non segue con una certa costanza l’universo dei comics americani una simile affermazione possa lasciare spiazzati per più di un motivo, perciò è meglio andare con ordine. La Saga del Clone è un ciclo di storie con protagonista Spider-man – forse, ne parliamo meglio tra poco – pubblicato nel corso di un paio d’anni tra il 1994 e il 1996, una lunghissima trama spezzettata tra tutte le testate che vedevano allora protagonista l’amichevole arrampicamuri di quartiere, destinata nelle intenzioni a stravolgere per sempre la vita dell’eroe simbolo della Marvel.

Non era la prima volta che una casa editrice provava un colpaccio simile. Un paio d’anni prima Superman era morto per mano di Doomsday e poi risorto con una capigliatura discutibile, mentre nei mesi in cui la Saga del Clone iniziava a seminare grossi dubbi nelle menti dei lettori, un nuovo Batman faceva la sua comparsa per le strade di Gotham raccogliendo il mantello da un Bruce Wayne paralizzato da una frattura alla spina dorsale. Erano gli anni ’90, appunto, un periodo di esagerazione sotto ogni punto di vista: trame, variant cover e deformazioni anatomiche.

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Ipertrofici, irrispettosi dei miti, esagerati: gli anni ’90.

La traiettoria del decennio per quanto riguarda il fumetto americano era stata tracciata nel 1992 con la nascita della Image Comics, casa editrice sorta dall’unione dei sette designatori più in voga del momento (tra cui Todd McFarlane, Jim Lee, Erik Larsen e Robert Liefeld) fuggiti dalle grinfie delle major in cerca di maggiore libertà artistica e una diversa considerazione in materia di copyright. I fantastici sette erano accomunati da un tratto ipercinetico, ipertrofico e – bisogna ammetterlo – iperspettacolare, una ventata d’aria fresca rispetto agli autori popolari negli anni ’80, di certo più tecnici, ma legati a uno stile più classico verso cui i lettori non mostravano più grande entusiasmo.

Come l’amore però anche il fumetto è un rapporto di forze tra due elementi in cui uno è sempre più forte dell’altro. Oggi, senza dubbio, il nome dello sceneggiatore sulla cover esercita un richiamo maggiore rispetto a quello del disegnatore – ironia della sorte, buona parte del merito si deve al cambio di rotta della Image – ma negli anni ’90 non si poteva prescindere da illustrazioni in linea con il gusto del momento per sperare di trovare un po’ di spazio sugli scaffali affollati di albi.

Il rovescio della medaglia di questa relazione sbilanciata è il ruolo di secondo piano riservato nel corso del decennio alla narrazione. D’altra parte se i fumetti della Image scritti dagli stessi disegnatori con risultati spesso risibili monopolizzavano le classifiche di vendita, evidentemente ai lettori delle sceneggiature importava poco, l’importante era ideare trame dal forte impatto e lasciare che i disegni facessero il resto. Un assunto di partenza errato, fallato dai dati gonfiati delle vendite di edizioni variant e simili sulla base di un tentativo di speculazione rivelatosi fallimentare, che tuttavia per poco non ha mandato a gambe all’aria l’industria.

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Prima di fondare la Image, McFarlane aveva rivoluzionato lo stile grafico di Spider-man.

Un periodo potenzialmente più disastroso di quanto si sia rivelato ma che – tornando alla Saga del Clone – ha anche costituito il terreno fertile da cui è emersa una delle storie più controverse di sempre, amata e odiata, rimossa e ciclicamente riportata a galla, taboo condannato a ritornare in ogni conversazione che riguardi la carriera fumettistica di Spider-man – per intenderci, online trovate un tributo in 35 parti che ripercorre l’intero evento editoriale, con retroscena, interviste e ricostruzioni storiche allestite sulla base di testimonianze dirette degli addetti ai lavori.

Si può dire da un certo punto di vista che l’intera saga sia frutto di un equivoco. Per risollevare le sorti delle diverse testate di Spider-man un team di editor e autori idearono a tavolino una trama che prevedeva il ritorno in scena di un clone di Peter Parker, apparso in una vecchia storia degli anni ’70, facendogli progressivamente prendere il posto dell’originale, diventato secondo loro poco appetibile al target più giovane del pubblico per colpa della progressiva maturazione accordata al personaggio e culminata col matrimonio. Nessuno, nemmeno per un momento, prese in considerazione l’ipotesi che le colpe del declino fossero semplicemente imputabili alle storie ridicolmente brutte in cui era coinvolto. Per esempio, di recente il buon Peter aveva dovuto fare i conti con il ritorno in scena dei suoi genitori, a lungo creduti morti, salvo poi scoprire di essere stato ingannato da una coppia di avanzatissimi robot per mano del suo arci-nemico Goblin. Probabilmente sarebbe bastato più semplicemente prestare più attenzione ai testi, ma questo è puro e semplice senno di poi.

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Spider-man e il suo clone, per la prima volta uno contro l’altro, nella prima versione della Saga del Clone.

In realtà la prima volta che ho letto la Saga ignoravo tranquillamente tutti questi retroscena. Appartenevo a quella categoria di pre-adolescenti che aveva occhi solo per i disegni e accoglieva con pari stupore sia le trame divenute oggi dei classici che evidenti cialtronate come quella appena riassunta. Una miniera d’oro per gli editori di super-eroi dell’epoca. Nonostante non abbia più riletto questo ciclo di storie, il loro ricordo, seppur sbiadito, mi ha accompagnato con un misto di affetto adolescenziale fin da allora, riportato ciclicamente a galla dalle discussioni sbocciate a cadenza regolare nel sottobosco di forum e social. Almeno fino a questi giorni, quando la Panini ha deciso di raccogliere in volume e ristampare l’edizione italiana.

Negli USA l’intero ciclo di storie è stato racchiuso in tre mastodontici omnibus da oltre 400 pagine l’uno. Qui da noi invece si è deciso di impostare il recupero secondo un criterio filologico, racchiudendo in cinque volumi previsti nel corso dell’anno le storie centrali, a cui eventualmente faranno seguito altri volumi accessori nel caso l’iniziativa riscuota un buon successo. Per questo motivo le prime pagine sono semplicemente un’estratto di alcune vignette prese da storie che precedono l’inizio della saga, ma in cui sono finite premesse che servono a contestualizzare meglio gli eventi.

Questa scelta priva il lettore di tutta quella lunga costruzione narrativa che a suo tempo era servita a nutrire la sensazione di tempesta imminente, indizi centellinati in una decina di albi mentre un misterioso figuro faceva capolino qua e là in una manciata di vignette al mese in un percorso di avvicinamento a New York che l’avrebbe presto reso protagonista o quasi di tutte le testate dedicate al ragno. La scrematura però porta con sé anche parecchi vantaggi, perché la qualità media delle storie coinvolte nella saga non era esattamente altissima, per usare un eufemismo.

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Spider-man e il suo clone nuovamente faccia a faccia nel loro primo incontro durante la seconda Saga del Clone.

Spalmata su numerose testate minori con l’evidente intenzione di allungare il brodo e battere cassa, la storia di Ben Reilly – questo il nome scelto dal clone per onorare zio Ben insieme al cognome da nubile di zia May – in realtà fatica a raggiungere vette di eccellenza anche nei capitoli più importanti. Parte della colpa è da imputarsi a una coordinazione editoriale non sempre efficace: siamo ai primi esperimenti di smembramento di una storia tra più testate gestite da autori diversi e gli errori anche grossolani non mancano, come una maschera strappata sul viso di Spider-man sul finire di un episodio che ritorna intatta poche pagine più in là dopo il cambio di team creativo.

Il continuo passaggio ogni 22 pagine a una nuova coppia di scrittore e disegnatore in realtà consente anche di apprezzare come all’epoca ciascuna serie dedicata a Spider-man avesse una propria atmosfera, in qualche modo conservata anche in questa situazione. Spicca su tutti J. M. De Matteis, già autore di quella che forse è la più bella storia di Spider-man di sempre, che tenta col suo abituale approfondimento psicologico del cast di comprimari di elevare la qualità della scrittura dei suoi episodi al di sopra del compitino editoriale richiesto dagli editor per condurre la saga verso i binari prestabiliti, insieme a un Mark Bagley già padrone di uno stile grafico solido e morbido al contempo, un marchio di fabbrica destinato ad accompagnare la vita editoriale di Spider-man ancora a lungo.

Non mancano di contro i passaggi a vuoto. Sceneggiature e dialoghi di Terry Kavanagh sono parecchio deboli, al pari degli episodi illustrati da Tom Lyle e Alec Saviuk, due esempi delle brutture grafiche offerte dagli anni ’90, nate dalla voglia di sopperire ai limiti tecnici imitando lo stile spettacolare ed ipertrofico che andava per la maggiore. Anche alcuni dei nuovi personaggi che compaiono su queste pagine sono chiaramente figli dei loro tempi. Il potentissimo Judas Traveler e la corte dei miracoli dei suoi assistenti, in un tripudio di costumi muniti di tasconi, mullet e pistoloni giganteschi, vengono gettati nella mischia senza idee ben definite sui loro ruoli, più per volontà di dare in pasto ai lettori delle novità plasmate sui loro nuovi gusti.

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Ben Reilly, il clone, nei panni di Scarlet Spider.

A costo di cadere però nel luogo comune del “si stava meglio” non si può evitare di avvertire, mentre si procede di pagina in pagina, una certa genuinità, o forse ingenuità, che gli eventi editoriali odierni hanno quasi del tutto cancellato – con le dovute eccezioni, come sottolineato dal bravissimo Evil Monkey in questa analisi della recente Secret Wars. Forse allora aiutava l’assenza di canali comunicativi puntati sul mondo del fumetto, cassa di risonanza per gli uffici marketing disposti ad ogni spoiler pur di garantire una copia venduta in più, anche a costo di rovinare il colpo di scena intorno a cui gli autori hanno costruito mesi o anni di trame.

Di capitolo in capitolo la Saga del Clone trasmette l’incertezza incombente sul destino dei suoi protagonisti, palpabile oggi come 20 anni fa, quando tra un episodio e l’altro bisognava attendere almeno quindici giorni. Col senno di poi, ora so che alla creazione di quel clima contribuiva una pianificazione editoriale schizofrenica, la voglia di allungare ben oltre il previsto un racconto che si stava rivelando un successo economico, la rabbia dei lettori di fronte a una rivelazione che di fatto sembrava riscrivere anni ed anni di storie in archivio, tutto vero.

L’idea iniziale era quella di rivelare che il Peter Parker conosciuto dai lettori fosse in realtà il clone e Ben Reilly l’originale, uno sviluppo a cui si accenna sibillinamente in più occasioni anche in questo primo volume. Ci sarebbe stato tempo per cambiare idea in corsa almeno un altro paio di volte, ne parleremo meglio quando usciranno i prossimi capitoli,  eppure nonostante la confusione incombente in queste storie così anni ’90 mi sono ritrovato a scorgere con estremo piacere anche un alchimia che fatico a ritrovare nella Marvel moderna, nonostante una professionalità e una qualità media degli albi indubbiamente più elevati. Forse ancora una volta è colpa dello squilibrio tra i due elementi che danno vita a una relazione, in questo caso la passione e la pianificazione, o forse è solo una questione di età anagrafica, ma se dal 1994 la Saga del Clone fa tuttora parlare di sé e divide gli appassionati come se fosse stata scritta ieri, può essere che l’irripetibile combinazione di eventi sotto cui è stata orchestrata abbia prodotto – quasi per assurdo – un risultato finale di molto superiore alla semplice somma dei singoli elementi che la compongono.

La saga del clone - Il ritorno dell'esiliato



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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2 Comments

  1. complimenti, articolo bellissimo

  2. Ohibò, grazie mille.

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