Dalle rovine, il primo romanzo di Luciano Funetta, è stato definito il miglior esordio italiano da diversi editor e direttori editoriali italiani ; una definizione di per sé sufficiente a stimolare la giusta curiosità per indurmi a leggerlo, ma che ha poi contribuito alla mia perplessità una volta terminato il volume.

Un Noi (non viene mai svelato di chi si tratti, ma sembra non essere altro che una sorta di coro dei lettori) segue le vicende di Rivera, un uomo che vive in solitudine nella città di Fortezza, con e per i serpenti che alleva. Rivera si filma con loro durante un atto intimo – le creature lo masturbano – e offre il video al gestore dell’ultimo cinema pornografico della città. Entra così in contatto con Jack Birmania, fondatore della casa di produzione pornografica Venere Birmana, e con ciò che la quarta di copertina definisce “pornografia d’arte”.

Tutta la pornografia del libro si esaurisce nella pièce de résistance di Rivera, che è più vicina a certa performance art, se non addirittura a certi film che hanno sdoganato il sesso non simulato (basta pensare a 9 Songs di Michael Winterbottom o Love di Gaspar Noé, per tacere della celebre scena di Go Go Tales in cui Asia Argento baciava con la lingua un cane). È possibile che Funetta volesse fare riferimento alla corrente antidittatoriale brasiliana del Movimento de Arte Pornô , se non fosse che, in primis, l’universo culturale dell’autore sembra più legato alle culture ispanofone del continente, e, in secondo luogo, nel romanzo c’è ben poco di resistenza al regime; l’autore, dal canto suo, ha dichiarato che la pornografia nel romanzo è «una pornografia fantasma che immagina se stessa» – parziale, anche se nebulosa, giustificazione del modo superficiale in cui l’argomento viene trattato, ma anche sana ammissione di ignoranza e mancanza di ricerca.

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Jack Birmania convince Rivera a partecipare a una produzione più raffinata, con un’attrice e un regista di fiducia. Si tratta dell’episodio conclusivo di un film antologico, una ventina di minuti in cui Rivera ripete la performance amatoriale che aveva catturato l’attenzione di Birmania, con un corollario strappalacrime:

… due amanti che non riescono a toccarsi. Per questo gli incontri tra i due avvengono nella stanza dei serpenti. Lui si fa masturbare dai rettili e lei lo guarda e si masturba a sua volta. Quello che ci interessa è che i due innamorati non smettano mai di guardarsi negli occhi e che vengano nello stesso momento. 

Il film viene invitato a un festival di cinema (solo) erotico che si tiene a Barcellona, dove i nostri entrano finalmente in contatto con l’argentino Alexandre Tapia. Tapia ha scritto una sceneggiatura intitolata, in un inutile guizzo metaletterario, Dalle Rovine, che è un risultato finale molto minore della somma delle sue parti (il concetto di Panopticon, gli ultimi minuti de L’Eclisse di Michelangelo Antonioni e Todo modo di Leonardo Sciascia) e racconta degli incontri, in una città deserta ma sorvegliata, di cinque uomini, i quali compiono atti di una violenza efferata e quasi rituale. Uno di questi uomini uccide una donna con dei serpenti; per questo ruolo, Tapia vorrebbe Rivera e i suoi piccoli amici.

Tapia vorrebbe essere, nelle intenzioni autoriali, una presenza sulfurea e allucinata, ma il mondo costruito da Funetta è così generico che l’impatto di questo losco figuro è limitato. È spiacevole notare come un personaggio caratterizzato in modo tanto piattamente negativo – matto, promiscuo e pericoloso – sia anche l’unico non eterosessuale del romanzo, soprattutto considerando che l’autore usa tuttora frasi come «ebbe un sorriso da checca spietata», una metafora che comunica una certa omofobia e nient’altro.

Al festival spagnolo entra in scena anche l’altro grande vecchio della storia: Klaus Traum, a sua volta fondatore della Traum Sueño Peliculas (purtroppo Funetta non ha colto l’occasione di chiamarla Traumnovelle, o magari Traumnovela, per rimanere in tema pseudo-ispanico). Klaus Traum non è che un raddoppiamento della figura di Jack Birmania – quando c’è uno, spesso, manca l’altro – e non è affatto chiara la necessità per l’autore di creare due figure così simili per assolvere alla stessa funzione narrativa. Funetta non aiuta se stesso quando decide di mettergli in bocca un paio di riferimenti da quarta ginnasio all’antichità classica, parole che risultano a dir poco incongrue quando proferite da un tedesco.

A proposito di parole, una nota sui personaggi stranieri che popolano Dalle Rovine: si esprimono in perfetto italiano per la maggior parte del tempo per poi utilizzare, ogni tanto, invocazioni o brevi frasi nella propria lingua (incomprensibile agli interlocutori): un modo di comunicare che chiunque abbia vissuto all’estero o abbia anche solo parlato con qualcuno che non conosce l’italiano troverà piuttosto improbabile.

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Se finora ci siamo divertiti, tuttavia, siamo ancora in tempo per una brusca caduta nel cattivo gusto. Negli ultimi capitoli, l’autore decide di fare riferimenti alla Storia: Rivera visiona un filmato che sembra inserirsi nel contesto delle torture subite da coloro che sarebbero poi stati chiamati desaparecidos. Se una frase come «Al risveglio, la voce che proveniva dal sogno continuava a ripetergli che un topo vivo infilato nella vagina di una donna è come un anello al dito.» non può che scatenare la più viva ilarità in chi legge, si tratta di risate con un retrogusto amaro per la banalizzazione di vicende storiche così tragiche.

Pur essendo un povero corpo muto e torturato, tuttavia, la donna che appare in quel filmato potrebbe essere il personaggio femminile con più verve dell’intero romanzo: la moglie di Rivera ha scelto il divorzio perché ovviamente non capiva l’amore del suo uomo per i serpenti; la commessa nel negozio di animali vorrebbe farselo per direttissima, ma è brutta e dunque il nostro protagonista non ci sta; l’attrice Maribel Lalande, la nuova scoperta di Jack Birmania dall’improbabile nazionalità francese, è una sciocchina il cui ruolo si risolve nel non far sembrare Rivera il più ignorante della compagnia, oltre a offrirgli conforto sessuale quando necessario; Clelia Moroder (emerge in questo nome la caratteristica delicatezza dell’autore nel segnalarci i suoi riferimenti culturali) parrebbe avere un modicum di intelligenza in più, ma finisce per rivelarsi solo una presenza fugace, utile solo per illuminare qualche aspetto meno ovvio della relazione tra Birmania, con cui è sposata, e Klaus Traum.

Rimanendo sui riferimenti culturali dell’autore, Funetta non sembra in grado di farne senza incorniciarli di frecce al neon: ogni volta che viene nominato un film (Freaks di Tod Browning o Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato), la narrazione fa una pausa in modo da permettere ai personaggi di sproloquiare a riguardo. Questo è particolarmente evidente nel terzo capitolo, quando Laudata, il regista ingaggiato da Birmania, si presenta a casa di Rivera per registrarlo mentre legge il brano di un romanzo; il momento è così insistito che, nella mia ignoranza, ho provato a copiare il testo in questione su Google: il primo risultato rimanda alla fonte, uno scritto di Roberto Arlt. L’unica eccezione positiva è il clin d’oeil ad Alberto Arbasino che si trova più tardi. Maggie Nelson in The Argonauts inserisce le citazioni in corsivo nel testo e le rispettive fonti nei margini; un espediente simile forse avrebbe potuto rendere Dalle Rovine un po’ più agile, nonostante il primo sia un memoir ibridato e il secondo un romanzo canonico.

Il presunto sottotesto sudamericano che tanti hanno ritrovato nell’opera non è gestito meglio: l’ambientazione principale, la città di Fortezza (someone still loves you, Dino Buzzati), non è diversa da una qualsiasi città della Bassa Padana durante l’estate; il nome Rivera riporta alla mente tanto l’Abatino del Milan quanto omonimi ispanofoni. Ci si potrebbe arrampicare sugli specchi e dire che il nome spagnolo Maribel coniugato al cognome francese Lalande potrebbe rispecchiare l’identità divisa tra Francia/Belgio e Argentina di Julio Cortázar, ma, se anche fosse, sarebbe solo l’ennesimo esempio di malriuscita conversazione con i maestri del passato.

Dalle Rovine vorrebbe essere la cronaca di una discesa nella follia e, allo stesso tempo, del lento risveglio del protagonista dalla situazione di stasi in cui era sprofondato all’inizio della narrazione, ma Rivera non ha abbastanza carattere per far sì che questi percorsi interessino davvero al lettore; vorrebbe essere intessuto di riferimenti colti, che però non sono quasi mai integrati in modo organico; vorrebbe essere ambientato in un mondo onirico, e invece l’impressione è di trovarsi nella provincia italiana tanto seguita dalla redazione di cronaca nera di Studio Aperto.

Questo romanzo avrebbe potuto salvarsi? Sì, con un minimo di ironia o di intento parodico (il personaggio di Laudata aveva del potenziale a riguardo); ma il tono tra il mistico e serioso dell’autore appesantisce un romanzo nato zoppo, che finisce per risultare tedioso nella sua ricerca di profondità a tutti i costi e vacuo nel suo tentativo di indagare la ”rovina”.

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