Quando si tratta di contestualizzare un film non si può far altro che osservare gli indici del tempo e dello spazio della narrazione e sistemare idealmente in un continuum storico/reale e cinematografico/fittizio le vicende descritte. Volendo tentare una classificazione sommaria, si potrebbe ridurre i contesti cinematografici a quattro modelli possibili.

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Il primo, il “contesto inesistente”, sarebbe quello mostrato attraverso i racconti futuristici, distopici, ucronici, cui appartengono solitamente i film fantasy o fantascientifici, ma al quale possono anche appartenere pellicole di genere western o epico, specie quando rileggono il passato modificando la Storia. Il secondo è il “contesto contingente”, esibito attraverso i racconti al presente, quelli che si occupano di attualità o del passato recente, approcciandoli in maniera piuttosto fedele e realistica, come nel caso del documentario. Il terzo è il “contesto anteriore”, mostrato attraverso un racconto storico, tutto sommato preciso ma comunque romanzato, cui appartiene la docufiction e il biopic. Infine, il quarto modello è quello che chiamerò il “contesto universale”, rivelato attraverso un racconto (non importa se al passato, al presente o al futuro) capace di emanciparsi dal tempo e dallo spazio della sua narrazione al punto di rarefare i segni delle epoche, delle nazionalità, delle età anagrafiche, etc., suggerendo condizioni umane comuni, replicabili e perenni.

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Si tratta di film in cui ogni significante finisce per perdere consistenza in virtù di un allestimento puramente spirituale. E’ chiaro che, in un modo o nell’altro, il cinema manifesti sempre questa aspirazione universale e che ogni contesto si mostri sempre come “sfondo” fittizio dal quale potersi staccare, ragion per cui ogni storia tende sempre a tradire il reale per offrirne la propria interpretazione. Tuttavia sono pochi i film che, al di là di questa comune tensione, riescono con puntualità e ingegno ad acciuffare le lunghe ombre delle cose, confinando nell’infinito. Brooklyn (John Crowley, 2015) è sicuramente uno di questi.

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Tratto dall’omonimo romanzo di Colm Tóibín, sceneggiato dal noto scrittore inglese Nick Hornby – candidato all’oscar per miglior sceneggiatura non originale – e diretto da John Crowley, il film Brooklyn rappresenta il frutto di un incontro tra autori raffinati e dal differente background culturale, in cui si ritrovano tutte le gioie e i turbamenti dovuti alla recisione delle proprie radici, fisiche e metafisiche, culturali e morali, con cui tutti, in un modo o nell’altro, si trovano ad aver a che fare. Primi anni Cinquanta, Eilis Lacey (una meravigliosa Saoirse Ronan), non riesce a trovare il suo posto all’interno della piccola comunità irlandese in cui è cresciuta con la madre e la sorella, per questo decide a malincuore di tentare la fortuna negli States, e più precisamente a Brooklyn, meta accessibile delle classi operaie e immigrati europei. Le classiche difficoltà contribuiscono ad acuire la nostalgia di casa, ma anche a edificare le nuove ragioni di vita della ragazza, fino a quando non è costretta dalle circostanze a fare ritorno in patria, una patria che ora sembra volerle offrire tutto ciò che essa ha sempre desiderato, o ha sempre creduto di desiderare…

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La storia di Brooklyn è, dunque, una storia semplice, già raccontata seppur sempre relegata sullo sfondo di ben altre avventure. Qui, invece, è proprio la spola dell’immigrato a rappresentare l’unica grande avventura, un viaggio A/R/A capace di mettere in relazione due mondi, uno arcaico, sedimentato e strutturato, e l’altro nuovo, emergente e libero, ma anche tesa a confrontare il passato e il futuro, l’infanzia e l’età adulta, le radici e le germogli dell’esistenza. Le due sequenze del tragitto in nave, metafore del processo fisico e psichico cagionato dal cambio di abitudini, esprimono in maniera chiara e semplice il passaggio dall’eccezione alla consuetudine tipico dell’interiorizzazione di un’esperienza e, quindi, della costruzione del sé, che se la prima volta si verifica come evento traumatico, la seconda è asintomatico e naturale. Come a dire: sei te stesso quanto più riesci a elevarti dalle tue radici. E questo è un fatto che vale per tutti, oggi come ieri, e forse anche domani.



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2 Comments

  1. bella analisi, anche se non mi ha indotto curiosità di vedere il film

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