Le forme letterarie dominanti di un periodo storico spesso possono dare qualche indizio su di esso – basti pensare alla discussione intorno alla cosiddetta “morte del romanzo” che ha caratterizzato buona parte del travagliato Novecento. Il nostro tempo è contraddistinto dal successo dell’autofiction e di narrazioni dalla forte impronta autobiografica, anche se non manca chi produce romanzi dall’impostazione più tradizionale.

Private Citizens, il primo romanzo di Tony Tulathimutte, si caratterizza per una forma quasi ottocentesca: ogni capitolo si apre con un’epigrafe e la narrazione è in terza persona singolare, anche se non onnisciente. Dopo un prologo ambientato nel 2007 – in cui i protagonisti, quattro amici neolaureati in rapida alienazione gli uni dagli altri, decidono di passare un giorno in spiaggia – il romanzo è diviso in dodici capitoli, che seguono i personaggi nel 2008, inframezzati da brevi interludi che ci portano nel biennio 2003/2005. Le vicende principali si svolgono a San Francisco a metà degli anni Zero, quindi, prima dell’ultima crisi economica: un’epoca a noi vicina, ma che l’assenza dell’odierno Internet massificato fa sembrare forse più storica del vero.

Nonostante una provenienza sociale varia, i protagonisti di Private Citizens hanno studiato a Stanford, dove si sono conosciuti: quando Henrik e Linda hanno iniziato a vedersi, anche Will e Cory (i rispettivi coinquilini) si sono trovati a passare platonicamente del tempo insieme. Nel presente del romanzo, tuttavia, questi legami reciproci si sono allentati fino quasi a scomparire: tutti e quattro posseggono un’istruzione prestigiosa e un cervello di prim’ordine, ma il periodo dell’università è ormai passato da un pezzo; la confusione (più o meno palese) del periodo che segue la laurea è il loro grande punto in comune, che ciascuno gestisce in modo diverso.

He wanted to say he was miserable, jobless and frightened, but the best she could do for him was to treat him as if he weren’t, so there was no point in saying so.

Cory lavora presso Socialize, un’organizzazione non profit, che si ritrova a guidare dopo la morte del fondatore, e vive in uno squat con scarsissima privacy dove le sue idee per vivere in modo consapevole si scontrano sempre con l’attivismo inconcludente della sua coinquilina Roopa; la decisione di provare a rendere Socialize un successo la costringe a confrontarsi con l’aspetto più legato al profitto del mondo della filantropia, portandola anche al limite delle forze.

L’enfant prodige Linda si è laureata a diciannove anni, ma ha finito per perdersi in una spirale autodistruttiva; dopo un periodo in comunità, conduce un’esistenza di randagio parassitismo; il suo stile di vita è sostenibile solo grazie al suo aspetto, che le apre molte porte, ma il suo carattere tempestoso sottace un passato caratterizzato da abusi.

Will è un coder e ha una relazione stabile ma ossessiva con Vanya (il cui progetto, Sable – riprendere e trasmettere in tempo reale la sua vita di imprenditrice paraplegica – può ricordare il reality show concepito da Jennifer Egan nel romanzo Guardami); nonostante una certa calma apparente, anche Will ha dei problemi dal punto di vista di accettazione del sé, esacerbati dalle conseguenze sensibili della sua identità di asiatico-americano.

Henrik, alle prese con la sospensione della propria borsa di studio durante un dottorato in ingegneria biomeccanica, sta affrontando un periodo di precarietà che da economica diventa anche mentale; si scontra con il peso del proprio disturbo bipolare, che cerca di domare oltre le prescrizioni dovute e finisce così per peggiorare.

In questa satira spietata che non scade mai nella farsa crudele, Tulathimutte eleva i propri personaggi da blandi significanti sociologici a figure vive, interessanti e poco simpatiche: il tono ironico e tagliente dell’autore sottolinea l’ipocrisia delle loro affettazioni e allo stesso tempo ne ritrae con compassione tormenti e ansie private.
Le interazioni tra i quattro personaggi principali non sono toccanti, in sé e per sé, ma c’è sempre qualcosa di appagante per il lettore nel vedere cosa succede quando Linda, Henrik, Cory e Will entrano in contatto gli uni con gli altri.

Being unwritten, unread, hiding out in an apartment, in subtext, unnatural, unnurtured, refusing to be emplotted like a good little subject, that’s my whole deal now.

San Francisco ha sempre avuto un ruolo importante nell’immaginario collettivo, ma di solito attira meno attenzione dei due poli New York/Los Angeles (al centro di altri due romanzi usciti da poco in Italia incentrati su epoche di grande suggestione per il pubblico – rispettivamente il 1977 della Città in Fiamme di Garth Risk Hallberg e il 1992 dei Giorni di fuocodi Ryan Gattis). Se Will, Henrik e Cory rappresentano uno specchio in cui vengono riflessi i due aspetti stereotipici a cui San Francisco viene di solito associata nell’ultima parte del XX secolo e in questo inizio di XXI, vale a dire la tecnologia e varie forme di attivismo, Linda ha invece ambizioni letterarie. Unico personaggio non caratterizzato dal proprio titolo lavorativo – nel corso del romanzo si mantiene tramite varie forme di sex work, sfruttando l’attaccamento di uomini benestanti e, cosa abbastanza divertente considerato il tipo, come tata – Linda trascorre il romanzo cercando di resistere, senza grande forza di volontà, ai propri istinti autodistruttivi; spirito dionisiaco portatore di caos per gran parte del tempo, è anche la sola del quartetto a cui viene concesso di esprimersi in prima persona, attraverso un diario. Tramite Linda, Tulathimutte sembra voler imputare a una certa narrativa statunitense moderna – quella uscita dai vari MFA, con cui l’autore ha familiarità, da ex alunno del celeberrimo Iowa Writers Workshop – un’eccessiva professionalizzazione e seriosità del mestiere.

La stessa Linda, in ogni caso, non è un modello di scrittore da seguire: anche se sembra muoversi sulle orme di certi autori novecenteschi di notoria dissolutezza (anch’essi legati alla costa occidentale, come i Beat o Bukowski), la sua produzione letteraria si attesta su uno sterile zero, che deriva non tanto dal suo consumo di droghe quanto da una certa arrogante megalomania che maschera un evidente terrore di fallire.

Private Citizens non è un romanzo perfetto. Per citare alcuni dei difetti, a ognuno dei protagonisti succede almeno una cosa molto improbabile oppure viene loro assegnata una caratteristica non proprio credibile, e la narrazione tratta ogni avvenimento come del tutto verosimile. E ancora, la parte della storia dedicata a Cory risulta a volte così poco naturale che sembra quasi di poter intravedere lo vedere lo schizzo delle sua evoluzione narrativa sul bloc notes dell’autore. Dunque Private Citizens non è un romanzo perfetto, si diceva, ma si fa perdonare molto grazie al brio mordace della narrazione e ai suoi personaggi, vitali e (a differenza di altri) immersi nella società.

cover private citiziens



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