30 anni fa oggi, andava in onda la prima puntata dell’anime Maison Ikkoku, da noi conosciuto anche col nome di Cara Dolce Kyoko, tratto dall’omonimo manga seinen che Rumiko Takahashi aveva iniziato scrivere nel 1980 e avrebbe terminato nel 1987. Per molti, è il miglior anime sentimentale mai realizzato; per tutti è una pietra miliare nella storia dell’animazione giapponese.

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A quei tempi Rumiko Takahashi, la Principessa dei manga, era reduce dall’incredibile successo di Lamù e si preparava a realizzare quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa in assoluto, Ranma ½. Maison Ikkoku è molto diversa da entrambe: ambientata in un arco narrativo di oltre cinque anni, in un credibile Giappone degli anni ’80, racconta la faticosa storia d’amore tra Yusaku Godai, uno studente bocciato all’esame di ammissione all’università che studia per rifarlo e la giovane e affascinante Kyoko Chigusa, vedova 22enne che vuole gestire la pensione Ikkoku (un edificio fatiscente costruito ai tempi della seconda guerra mondiale) per elaborare il recente lutto e vincere la depressione.

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L’amore tra i due, oltre che dalla “naturale” inettitudine di Godai, un tratto comune a molti personaggi maschili dell’universo Takahashi, è costantemente ostacolato dalla bizzarra fauna umana presente nell’edificio: l’obesa e pettegola vegliarda Hanae Ichinose, la quasi sempre discinta e alcoolizzata Akemi Roppongi, il misterioso Yotsuya, che trascorre tutto il giorno rinchiuso nella sua stanza. In mezzo ci si mette poi anche Shun Mitaka, l’unico vero rivale di Godai, decisamente più ricco e brillante.

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La struttura narrativa di Maison Ikkoku ha permesso alla serie di vincere la sfida col tempo. Sentimenti e problematiche universali, che trascendono le generazioni, narrate con umorismo, leggerezza ed una punta di malinconia: una ricetta vincente che ha fatto breccia nel cuore di milioni di persone. La vena comica e surreale mostrata dalla Takahashi qui è solo accennata e tutta la serie dimostra un invidiabile realismo ed equilibrio. Piace tantissimo, e a suo modo è un piccolo trattato sociologico, la rappresentazione del Giappone degli anni ’80, quello del benessere, della bolla immobiliare non ancora scoppiata, il ritratto di un Paese delle meraviglie in cui la tecnologia si sposa con la tradizione.

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L’anime, realizzato dallo Studio DEEN, è caratterizzato da valori produttivi notevoli per quel periodo. Gran parte del fascino va ascritto al chara di Akemi Takada (la stessa di Orange Road, che rivaleggia quasi alla pari con Maison Ikkoku come migliore serie sentimentale e formativa di tutti i tempi) e alle musiche, indimenticabili, del bravo Kenji Kawai, allora debuttante. A ben vedere, tutto funziona a meraviglia in Maison Ikkoku, dal doppiaggio (originale) alla regia, al ritmo, che riesce a far digerire sia l’incredibile numero di puntate (quasi 100) che la presenza di episodi filler non presenti nel manga. L’immedesimazione del pubblico e la vicinanza di quest’ultimo alle vicende dei protagonisti è totale: la lunga parabola raccontata dalla storia, che si dipana in più anni, permette di cogliere l’evoluzione e la maturazione dei personaggi mentre la formula dello Slice of Life permette ad un pubblico, per cui il Giappone era davvero lontanissimo, di iniziare ad apprenderne usi, costumi, tradizioni e peculiarità.

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Cosa resta oggi di Maison Ikkoku? Nonostante gli anime siano cambiati moltissimo, quanto a stile, ambizioni, ritmo e valori produttivi, è sempre piacevole e istruttivo tornare nella Casa (o visitarla per la prima volta), perchè in fondo le mille lezioni imparate assieme ai personaggi nell’arco della serie, sono utili, efficaci e hanno formato e forgiato il nostro carattere e la nostra esperienza. I Classici sono tali proprio perchè hanno sempre qualcosa da insegnare e non invecchiano: Maison Ikkoku appartiene senza alcun dubbio a questa ristretta categoria.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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