A chi ama gli shooter in prima persona singleplayer questi ultimi mesi hanno regalato un po’ a sorpresa parecchie gioie. Il merito di aver dato il là a questo revival va senza dubbio riconosciuto a Wolfenstein: The New Order che un po’ inaspettatamente ha riportato in auge una concezione di FPS che dai tempi di Half-Life 2 viaggiava ormai sul viale del tramonto. Ci ha pensato poi DooM negli ultimi mesi a ricordare definitivamente al mondo che quello tra shooter e online non è un legame naturale e inscindibile come le line-up recenti dei grossi publisher avevano provato a farci credere.

Se dunque bisogna dare credito a Bethesda per questa svolta gradita soprattutto a chi ha vissuto l’epoca d’oro degli FPS consumando i tasti WASD delle tastiere, lo spirito del tempo evidentemente nei primi anni di questo decennio aveva esteso la sua ombra ben oltre gli uffici del software house statunitense. Il travagliato Homefront: The Revolution, di cui vi abbiamo parlato qualche settimana fa, rappresenta ad esempio un altro indizio del tentativo di rinnovo con un occhio al passato attuato dagli shooter in prima persona, nonostante una ricezione di critica e pubblico lontano da quella di DooM.

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Hard Reset potrebbe invece essere stato l’ispiratore involontario di questo trend. Uscito nel 2011 per mano di Flying Wild Hog, un team composto da ex membri di CITY Interactive e CD Project, Hard Reset non solo anticipava – o  forse adirittura dettava – la svolta old school del genere, ma compiva già una decisa scelta di campo in favore del PC, andando controcorrente in un periodo in cui le console casalinghe dopo aver conquistato anche il terreno degli indie sembravano destinate ad essere le vincitrici naturali del conflitto. Come sappiamo la storia ha avuto un corso decisamente differente ed oggi sono le console a rincorrere il PC. Il tempo però non ha sopito l’occhio di riguardo verso gli underdog di Flying Wild Hog, così a cinque anni di distanza anche Xbox One e PS4 possono godersi un po’ di sana  e vecchia guerra alla macchine con la versione Redux di Hard Reset.

Come da tradizione la trama è poco più che un orpello, anche se non mancano i riferimenti nobili da Blade Runner al cyperpunk. I robot ormai dominano incontrastati il pianeta Terra e l’ultima risorsa dell’umanità è Bezoar, un città fortificata che ricorda più che altro una riserva in cui le ultime forme di vita non basate sul silicio possono passare gli anni che gli restano in relativa tranquillità. Almeno fino all’inevitabile breccia nelle mura e alla comparsa di stani omicidi a sfondo robotico che portano il nostro protagonista ad indagare a suon proiettili in cerca di una verità meno scontata di quel che sembra, ça va sans dire.

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Le tamarrissime vignette in stile comic book però non si dilungano troppo e lasciano subito spazio a quello che è il cuore pulsante piombo del gioco, una campagna di 6-8 ore in cui tutto quello che bisogna fare è procedere spazzando via qualunque antagonista meccanico provi a sbarrarci il cammino. L’unica cosa da tenere a mente, oltre a sparare, sparare e ancora sparare, è l’evoluzione delle armi da gestire tramite crediti che si raccolgono sia sconfiggendo i nemici sia scovando riserve nascoste in aree poco accessibili dello scenario. Le possibilità di costumizzazione sono notevoli al punto da tramutare all’occorrenza un fucile a pompa in un lanciagranate, mentre l’introduzione della katana – non presente nella versione originale del gioco – colma in maniera spettacolare la lacuna dei combattimenti corpo a corpo.

La varietà non serve solo a soddisfare i gusti più disparati, ma anche ad offrire diverse soluzioni per cavarsela con brillantezza negli scontri che spesso vedono coinvolti un gran numero di avversari meccanici per nulla docili da domare, magari approfittando delle esplosioni e delle scariche elettriche generate dall’interazione con le parti distruttibili dello scenario, utili alla peggio per godere dei divertenti effetti fisici messi in scena dall’intramontabile Havok. Anche la difficoltà insomma rimanda a un approccio di altri tempi e l’unica concessione al giocatore – forse – è un ritmo lievemente più lento su console, per venire incontro alla diversa sensibilità e precisione degli stick analogici dei pad impossibilitati a replicare le manovre concesse dall’accoppiata mouse e tastiera. La presenza di ben tre boss in un’avventura che si può consumare in un paio di giorni di assidua attività davanti alla schermo è solo la conferma di come Flying Wild Hog abbia impostato il raporto col giocatore su standard ormai decisamente tramontati.

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A corollario di questa evidente operazione nostalgia, anche la grafica a tratti pare rimandare a uno shooter anni ’90 con l’abuso nei primi frangenti di texture scialbe o fin troppo simili le une con le altre, ma la necessità di un ritorno a queste atmosfere dopo anni di monopolio online è così forte da conferire anche a scelte di design bizzarre – o trascurate – come queste un fascino da “quei bei tempi andati” che a mente lucida si può definire solo perverso.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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