Non c’è tempo per preamboli narrativi, non c’è spazio per fronzoli stilistici, non c’è posto per sbrodolamenti emotivi: tutto ciò che conta nel secco, sorprendente Green Room è assestare con una robusta vena realista – sostenuta dalla messinscena ruvida e quasi in tempo reale – colpi dritti in pancia.
Un survival movie serrato tra le mura asfittiche e zeppe di manifesti stracciati di un locale dove si è appena esibito, quasi di straforo, un gruppo punk-rock, i cui membri incappano per sbaglio in una scena del delitto e vengono braccati dai naziskin responsabili e dal boss del posto (un belluino, granitico Patrick Stewart) che sono intenzionati a chiudergli la bocca.
Il gig dei protagonisti, repentino e presto accantonato, parte meno di un quarto d’ora dopo l’inizio del film, l’incipit serve a malapena a mostrare i volti delle pedine, la partitura è nervosa e ha fretta d’esplodere, ma permette l’insorgere tensivo della carburazione epidermica, snodandosi fremente lungo l’interminabile clausura dei malcapitati nella stanza dell’omicidio, mentre cercano di contrattare una possibile (ma, come ben sanno, altamente improbabile) salvezza con i corpulenti malviventi al di là della porta.
Il carteggio ansiolitico, le minacce e i ricatti che i due gruppi si palleggiano – entrambi a loro modo in trincea – si frammenta attraverso fulminanti scatti di violenza cumulativi (il braccio tumefatto del – bravissimo, già molto compianto – Anton Yelchin, il volto sbranato dai cani del loro compagno), per poi sfociare in una vera e propria guerrilla (scopertamente evocata, performata). Una boccata d’aria fresca in una stagione in cui le pellicole horror/survival di buona qualità si contano sulle dita di una mano (It Follows, The Witch, The Shallows).
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