Assente a Venezia perché impegnato sul set del suo sequel di Blade Runner, il canadese Denis Villeneuve manda alla Mostra – insieme ai suoi protagonisti Amy Adams e Jeremy Renner – questo fantasioso esercizio di stile che si interroga, di nuovo, su cosa potrebbe succedere se gli alieni sbarcassero sulla Terra.

Elegantissime astronavi che ignorano le leggi della gravità si sono palesate in diversi punti del mondo, dall’America all’Europa fino all’Estremo Oriente. I cervelloni di tutte le nazioni si scambiano inutilmente informazioni e cercano, ognuno con l’ospite di casa propria, di instaurare un dialogo.

Negli USA tocca all’antipatico colonnello Forest Whitaker arruolare Amy Adams, una delle linguiste americane più celebri ed esperte, per tentare di decifrare i suoni emessi dalle creature, simili a radici di giganteschi alberi che all’occorrenza si rendono tentacolari.

Nella lotta contro il tempo per capire le intenzioni aliene e scongiurare un cataclismatico intervento militare ci sarà spazio anche per una silenziosa love story con il matematico Jeremy Renner.

Arrival usa la strada maestra per solleticare uno dei gangli emotivi del pubblico cinematografico (e non solo) di tutti i tempi. Ponendo l’intramontabile domanda: e se una forma di vita non umana arrivasse da noi?

Jeremy Renner as Ian Donnelly in ARRIVAL by Paramount Pictures
Jeremy Renner as Ian Donnelly in ARRIVAL by Paramount Pictures

Una delle risposte migliori degli ultimi trentanni, probabilmente, l’ha data Tim Burton, che con Mars Attacks! (1996) ha esorcizzato le nostre paure degli ufo ridendoci sopra. Difficile rileggere il genere meglio di come l’ha fatto lui, con una commedia irriverente in cui gli alieni sono esattamente come ce li aspettiamo: verdi, cattivi e dalle intenzioni pessime.

Burton, del resto, aveva fatto ironia su quest’immagine degli extra-terrestri ritraendoli usando solo stereotipi, anche perché a riguardo è difficile dire qualcosa di nuovo ed essere davvero originali.

Arrival, da un lato, cade nella trappola. Tenta la strada del nuovo-a-ogni-costo provando a dipingere con colori inediti la fantascienza e il classicissimo topos dell’incontro alieno. Riesce a farlo con freddezza asettica, in cui ombre e tentacoli si muovono dietro a schermi new age.

Proprio in questo tentativo, che riesce solo a metà, stanno la forza e la debolezza di un film ambiguo a modo suo.
La fantascienza, infatti, lascia progressivamente il posto a una riflessione più dotta e profonda. Quella sul linguaggio, sulla sua connessione al tempo che la cultura occidentale mercifica, consuma, monetizza. E quella – conseguente – sulla nostra incapacità di capirci, perché a volte è più facile trovare un feeling con chi parla la lingua più lontana dalla nostra. E qui la riflessione di Villeneuve regge e punge con acume.

Sul fronte opposto, il tentativo di creare suspense rimandando il momento di mostrare e rallentando i tempi della narrazione filmica sortisce stranamente l’effetto di raggelare i meccanismi cinematografici: il film procede a scatti, in qualche punto si arena in soste contemplative che rischiano la noia.
Idee intriganti, insomma, non sempre sviluppate per ricavarne il massimo dell’efficacia. E, qua e là, uno stile pasticciato. Come se Arrival provasse a mixare in salsa stylish Nolan e Malick. La cosa migliore del film, alla fine, resta la potente interpretazione di Amy Adams.

Arrival-2016-movie-Poster



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