Slade Alley è un vicolo stretto, buio e sporco che si insinua tra le case in un sobborgo londinese. Non sembra esserci nessun buon motivo per entrarci. Ma ogni nove anni su una delle sue mura scrostate appare una bassa porticina di metallo. Aprendola si può vedere che al di là del muro c’è una graziosa villa con giardino, che non dovrebbe proprio essere lì. Oltrepassare la porticina ed entrare non è difficile. Uscire può essere parecchio più complicato.

Avvertenza: questa recensione potrebbe non essere imparziale, in quando di David Mitchell mi considero un fan. Ho avuto la fortuna di scoprirlo al suo primo libro, ho comprato ognuno dei successivi e non ne sono mai rimasto deluso. Del resto, dove lo trovi un altro scrittore che riesce a mantenere sempre una cifra riconoscibile senza peraltro ripetersi mai? Che riesce a mescolare senza sforzo generi e stili apparentemente incompatibili all’interno dello stesso libro? Che riesce ad aderire a un genere con sincerità e risultare accessibile al lettore, pur rimanendo nel contempo squisitamente letterario? E che oltretutto riesce a fare in modo che i libri così diversi tra loro che scrive sembrino in qualche modo collegati e appartenenti a un unico universo di vite incrociate e personaggi? Ecco, Mitchell è così, e I custodi di Slade House è un altro tassello nel suo mosaico di storie.

Si tratta di un libro particolare, in quanto “costola” del suo romanzo precedente, Le ore invisibili, nel senso che le premesse di quanto avviene qui sono descritte lì, e che le due trame scorrono parallele (a intervalli non coincidenti: Slade House è diviso in cinque episodi, il primo dei quali è ambientato nel 1979 e gli altri seguono ogni 9 anni esatti, mentre Le ore invisibili comincia più tardi, nel 1984, e termina nel 2043, procedendo a salti più irregolari), ma senza intrecciarsi se non marginalmente (con collegamenti che solo i lettori più attenti noteranno). La principale connessione tra i due libri è la presenza degli Anacoreti, i malvagi stregoni-vampiri. Slade House tuttavia può essere apprezzato e compreso anche senza avere letto il precedente, e in effetti sono indeciso su cosa sia meglio fare: è vero che la conoscenza pregressa permette forse di apprezzare meglio alcuni dettagli, ma è anche vero che equivale a tirarsi un discreto spoiler sul finale. Quindi, se non avete letto Le ore invisibili, non siete obbligati a farlo; e direi addirittura che Slade House potrebbe rappresentare per voi un ottimo ingresso nel mondo di Mitchell, se ancora non ci siete entrati.

David Mitchell

Si tratta anche di un romanzo sperimentale, dato che nasce su Twitter: il primo dei cinque capitoli è stato infatti interamente diffuso attraverso il social network prima che Mitchell decidesse di svilupparlo in un romanzo. Non è una novità, l’hanno fatto anche altri scrittori come Jennifer Egan. Ma è interessante osservare la differenza del risultato: dove Egan faceva propria la natura del mezzo, adottando uno stile fatto di brevi e secche frasi autoconclusive e adrenaliniche, Mitchell invece si mimetizza alla perfezione, al punto che, una volta riassemblata su una pagina la sequenza dei tweet, la scrittura scorre fluida e non ci si accorge affatto che abbia dovuto rispettare la rigida griglia dei 140 caratteri.

Si tratta inoltre indiscutibilmente di un romanzo horror, anche se non dovete aspettarvi creature mostruose o tantomeno budella sparpagliate. Siamo dalle parti dell’orrore metafisico alla Lovecraft, o per certi versi alla Philip K. Dick: il terrore scatenato dall’incontrare creature dal potere infinitamente superiore al tuo, che ti considerano solo come bestiame o passatempo; o dalla consapevolezza che la realtà in cui credevi di vivere e cui avevi affidato tutti i tuoi sogni non è che un illusione sapientemente manovrata da qualcuno per ingannarti. Non posso dire che non mi abbia fatto dormire la notte, ma l’ho trovato sottilmente inquietante.

Infine si tratta anche di un romanzo letterario. Per la qualità estrema con cui ti fa entrare in un baleno dentro personaggi complessi e realistici. Ma anche per il virtuosismo con cui Mitchell, come un Philip Glass della letteratura, riesce a mantenere viva la tua attenzione all’interno di una struttura estremamente ripetitiva, introducendo variazioni minime ma ogni volta sufficienti per sorprenderti. E aggiungendo anche un bel substrato simbolico, con gli Anacoreti che sono una perfetta rappresentazione della cieca avidità prodotta dalla società negli anni recenti.

Difetti? Sforzandomi un po’, potrei lamentare un finale meno esplosivo di quanto avrebbe potuto essere (ma, conoscendo Mitchell, questo non è un bug, ma una feature; e comunque il senso di chiusura è maggiore che in altri suoi libri). O soprattutto, potrei dire che il soprannaturale descritto da Mitchell manca un po’ di mistero e di senso del sacro: è logico e asettico, troppo controllato, come potrebbe esserlo il sistema magico di un gioco di ruolo. Ma significherebbe fare il pignolo, perché la realtà è che il libro me lo sono sparato in un paio di giorni con somma goduria, cosa che non mi capitava da un po’.

Se non si era capito, consigliato: sia ai fan di Mitchell, che ci troveranno un romanzo un po’ più maneggevole dei precedenti ma con tutte le carte in regola; sia a chi non lo conosce ancora, per gli stessi motivi.

 

 



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Marco Passarello

Ingegnere non praticante, lettore (e occasionalmente scrittore) di fantascienza, noto anche con lo pseudonimo di Vanamonde (rubato ad Arthur C. Clarke). Per vivere esercita la dubbia professione del giornalista. Scrive su Nova 24, Pagina 99 e varie testate di settore, Ha fatto parte delle redazioni di Computer Idea e Computer Bild. Blog: (vanamonde.net/blog).

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